Talkin '70. Immaginario, immagine e immateriale.


Parlare oggi di progressivo italiano anni 70 non è così facile come sembra. E nemmeno degli stessi anni ’70: sia delle loro passioni che delle loro contraddizioni. Questo perchè, chi all’epoca era appena nato o magari neppure concepito, potrebbe rimanere perplesso sentendo parlare di una società così diversa da quella attuale: la cosiddetta prima repubblica. C’erano gli operai e la grande borghesia imprenditoriale, i comunisti, e il movimento, i gruppi extrapartitici e un florilegio di iniziative antagoniste. Tutte realtà che hanno esaurito la loro carica con la fine della grandi lotte politiche, esistenziali e creative degli anni Settanta, dando il via libera alla mercificazione del decennio successivo. Si passò in sostanza dall'immaginario all’immagine. Le immagini però si consumano in fretta, specie se utilizzate a fini commerciali o se non hanno alcun movimento alla base, e così anche gli anni Ottanta finirono culturalmente molto prima del nuovo decennio, affondati da una costante smaterializzazione dei bisogni primari tradottasi nel tempo in un nuovo modello che potremmo definire immateriale: un sistema in cui la politica ha perso ogni contatto con la base favorendo i regionalismi, e l’imprenditoria si è ritrovata a fare i conti con le contraddizioni di un mercato sempre più globale, con le nuove concorrenze e con la dispersione dei capitali e delle risorse umane. Di conseguenza, anche la forza lavoro, si è ridotta a un bene malleabile, ricattabile e sempre più estranea e disaffezionata alle proprie mansioni, mettendo così in gioco la qualità dell’intera catena produttiva. La differenza basica che passa dunque tra gli anni Settanta e oggi, è dunque da ricercarsi in questo passaggio tra immaginario (anni '70), immagine (anni 80) e immateriale (anni 90-2000). Certamente, parlare degli anni ’70 significa anche evocare lunghe scie di sangue, ideologie radicali, opposti estremismi, terrorismo, corpi separati, austerity e crisi economica. Ma c'è anche da chiedersi se quell'energia con cui tutti gli attori sociali difesero le proprie posizioni, sia davvero preferibile all’attuale silenzio o a un dissenso limitato alle emergenze. Occorrerebbe insomma stabilire se sia meglio lasciarsi trascinare a malavoglia da un’immanenza apparentemente inviolabile, o abbatterla con ogni mezzo possibile. Appurare insomma se distruggere l’immateriale non sia peggio della sua persistenza. immaterialeD’altronde, parafrasando Gaber nella sua “Il cancro”: “è difficile vivere con gli assassini dentro. E’ più facile vivere con gli assassini fuori che almeno puoi combattere”. E questa canzone Gaber la scrisse profeticamente nel 1976, guarda caso l’anno in cui la controcultura si sfaldò sotto i colpi dell’eroina, della repressione e della disgregazione sociale. Ma in politica una cura esiste sempre e in questo caso equivarrebbe al ritorno di quel “pensare collettivo” che fu degli anni ’70: al “non delegare” tanto caro agli anarchici e soprattutto al non pensare che rimettere la soluzione dei propri bisogni a chi si cura solo dei suoi sia necessariamente una buona idea. Servirebbe in sostanza il rifiuto della monocultura e delle merci per ristabilire grazie anche alle nuove tecnologie un immaginario possibile. Quell’anelito libertario cioè, che a partire dalle lotte degli anni Sessanta trasformò sì l’Italia in una polveriera, ma dalle cui intenzioni di base nacque una società più intelligente e produttiva in politica così come nelle arti, nella letteratura e nella musica. Un immaginario che mise in moto non soltanto una galassia di mondi possibili, ma aprì alle masse universi sino ad allora inesplorati. L’alternativa è restare arroccati ad un sistema destinato a dissolversi da cui erediteremo un pianeta silente fatto di icone, banche, debiti pubblici, guerre, merci inutili e invendute, sogni irrealizzabili e rivoluzionari strumentalizzati. Questa in breve è la differenza tra noi e gli anniSettanta: tra “il sogno come pratica” e “il sogno in quanto tale”. Tra la scelta intesa come "diritto” e quella per “necessità”. Il silenzio e la disperazione però, non sono mai completamente accettabili.

2 commenti :

URSUS ha detto...

Sottoscrivo ogni parola (pure le virgole) di questo articolo...e aggiungerei che,a parte una certa iconografia volutamente retrò che perdura nei soliti fenomeni di revival (di cui personalmente ne ho le balle piene) di quelle esperienze OGGI non si è capito nulla o quasi.
Le nuove leve che pensano di avvicinarsi al "prog" (termine che non mi sta nemmeno simpatico,tra l'altro) lo fanno in modo del tutto superficiale e senza capirne l'essenza culturale,che era invece fondamentale e che è stata la vera ragione della nascita (e purtroppo anche della morte,nei suoi aspetti degenerati).
A malincuore,poichè ho molta fiducia nei giovani e soprattutto nei giovanissimi,non mi sento di dire che una nuova stagione di creatività e magari anche di illusione (perchè no...sempre meglio essere ILLUSI che vuoti) arriverà da quelle parti : gli emuli del neo-prog o del neo-beat o neo-punk,persi ormai tra una miriade di etichette svuotate di SENSO...non costruiranno nulla di tutto ciò. Lo faranno altri,probabilmente,ma sarà un altra cosa che al momento è difficile da individuare...probabilmente una contaminazione DIVERSA,non relegata alla semplice nostalgia sterile e ripetitiva.
Mi auguro...

J.J. JOHN ha detto...

Rispondo a Ugo che mi ha chiesto cosa ne penso dei Krisma.
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Li ho odiati fino a U, poi li ho adorati da Chinese Restaurant in poi. Credo anche di avere due copie di Hibernation, il disco color ghiaccio.
Bravi, simpatici (soprattutto Maurizio) e versatili. Forse molto supini a mode e tendenze, ma qualunque cosa abbiano partorito, incluso "sat sat", non ha mai tradito la loro genialità.

Mi hanno detto che è molto bello, anche se non l'ho mai ascoltato, l'album "Trasparenze" di Maurizio, credo del 1973.