New Trolls: Ut (1972)

new trolls ut 1972Se non fosse per l'imminente ciclone che di lì a poco avrebbe devastato lo storico gruppo genovese, potremmo definire il loro quinto ellepì "Ut", uno dei meglio riusciti della loro produzione.
Purtroppo però, tutte le meraviglie che appaiono in quest'album si presenteranno all'ascoltatore quasi a comporre un epitaffio la cui stesura era già iniziata da qualche tempo.
 

Vittorio de Scalzi per esempio, dopo un momentaneo abbandono del gruppo decide definitivamente di rinunciare al suo storico ruolo di autore e di comparire solo come chitarrista, lasciando quindi carta bianca a Di Palo, Belleno, Laugelli e Maurizio Salvi, già collaboratore del gruppo all'epoca del singolo "Una Storia". Per inciso, il brano di Sergio Endrigo che i new Trolls portarono a Sanremo nel 1971 perché gli Alluminogeni si rifiutarono di farlo! "Non volevamo far perdere Endrigo", mi confidò personalmente Patrizio Alluminio. E aveva ragione.)

Malgrado gli attriti comunque, il sound che esce da "Ut" è sorprendentemente variegato e brillante quasi come se il gruppo, già conscio del suo futuro, volesse rilassarsi senza calcare troppo la mano sulle implicazioni della loro imminente separazione.

Già dal titolo (Ut è l'antico nome della nota "Do"), si capisce che la band voglia concentrarsi solo sulla musica: intenzione che nella pratica sarà mantenuta restituendo in otto brani tutte le sfaccettature musicali appannaggio dei musicisti.

Si comincia con una rielaborazione di Salvi di uno studio per piano di Johann Baptist Cramer per entrare senza soluzione di continuità in un breve ma infuocato prog-rock di marcato sapore fusion ("XII Strada").

 
Fin qui, la coesione della band è probabilmente la migliore che si possa ascoltare da "Concerto grosso" e la successiva prog-song, "I cavalieri del Lago d'Ontario" (testi: Laugelli, voce: Di Palo), non è solo una conferma di questo evidente stato di grazia, ma supera addirittura ogni aspettativa restituendo uno dei migliori brani in assoluto del quintetto.
Ancora una volta, viene da chiedersi come una formazione del genere stesse per dividersi.

 
ut 1972 new trollsSe "Storia di una foglia" e "Nato adesso" rispecchiano rispettivamente le due anime contrapposte di De Scalzi e Di Palo, riportando il disco su una dimensione più soffice, la dignitosa "Nato adesso" ci catapulta nella seconda perla di questo disco,"C'è troppa guerra," che è di fatto un micidiale cocktail di hard-rock e unplugged a mezza via tra le cose migliori dei Led Zeppelin e dei Black Sabbath.
 

In dieci minuti di compattezza granitica i New Trolls mettono in riga tutte le altre formazioni che si sono cimentate nell'hard, o che avrebbero appena voluto imitarli. Personalmente, trovo che in questo brano la voce di Di Palo raggiunga uno dei suoi massimi vertici espressivi.
Con grande raffinatezza segue poi una ballata pop soft di stampo "estivo" ("Paolo e Francesca"), nobilitata da un particolarissimo assolo di chitarra ma complessivamente non proprio imprescindibile.
Chiude l'album
la struggente "Chi mi può capire" che completa il vasto catalogo di umori che hanno attraversato il long playing e che, insieme ai "Cavalieri del lago di Ontario", si contende il titolo di miglior brano di Ut.


new trolls dal vivoSulle ultime malinconiche note di pianoforte, calèrà infine il sipario sulla prima grande epopea dei New Trolls.
In poco meno di sei mesi De Scalzi abbandonerà definitivamente gli altri per dar vita a una sua casa discografica (la "Magma") e costituire con D'Adamo gli NTAtomic System.

 

Di Palo formerà gli gli Ibis con Belleno, il quale a sua volta fonderà successivamente i Tritons.
Infine, nel 1976, proprio grazie a Gianni Belleno, nel frattempo tornato con De Scalzi, il gruppo originale si ricompatterà ma con obiettivi più votati al commerciale. Musica di classe s'intende, ma pur sempre Pop.


Malgrado la vacillante situazione del gruppo, "Ut" vendette piuttosto bene, al punto che furono in molti a caldeggiare i due leaders di restare insieme. La stroria però era già scritta.
Data la vastità di inputs e di riferimenti, la critica fu ovviamente divisa sul suo effettivo valore.
Da un lato c'è chi lo considerò un collage non particolarmente innovativo e neppure troppo omogeneo, per non dire "discontinuo e inconcludente", dall'altro non furono in pochi a considerarlo un disco quasi miracoloso (considerando la situazione) e di gran lunga superiore ai precedenti Concerto Grosso e Searching for a land.
In questo caso probabilmente la verità sta nel mezzo e, personalmente, amo pensare a questo disco come un valido compendio delle capacità della band che perlomeno, premiò una
una breve ma ritrovata conflittualità.

Maurizio Fabrizio: Movimenti nel cielo (1978)

Maurizio Fabrizio, Movimenti nel Cielo, 1978
Siamo nel 1978, e ci sono due o tre caratteristiche peculiari che distinguono questo secondo Lp del polistrumentista milanese Maurizio Fabrizio (all'epoca arrangiatore di Angelo Branduardi), da tutta la vecchia scuola rock, fusion e progressive italiana. 

Innanzitutto, l'impressionante levigatezza dell'esecuzione. Sound e struttura perfetti, non una nota fuori posto, abbellimenti e contrappunti che surgelano il pentagramma con precisione chirurgica, e una resa acustica pari una demo della Deutsche Grammophon. 

In più, un'ortodossia tecnica e produttiva talmente calcolati, da escludere non solo qualunque immaginazione, ma da renderla persino superflua.

L'esatto opposto insomma, di ciò che accadeva nel rock progressivo italiano e nelle sue digressioni jazz (Baricentro, Arti e mestieri, Living Life, Bella Band ecc.), là dove la musica evocava sensazioni e panorami arcani e cangianti, ed anche le imperfezioni avevano un loro senso. Quello di ricordarci che siamo pur sempre esseri umani, e la comunicazione passa anche attraverso gli sbagli, gli imprevisti e l'improvvisazione. 

Un po' come quelle geniali trovate in fase di registrazione che nel biennio Sessanta/Settanta venivano considerate, se non proprio irrinunciabili, perlomeno "caratteristiche": i nastri al contrario, gli altoparlanti tagliati, i chiodi sul rullante, le voci impreviste come la risata di Syd Barrett, e via dicendo. 

Maurizio Fabrizio
In "Movimenti nel Cielo" invece, è tutto perfettamente dosato, cesellato e servito. Come la title track che avrebbe potuto essere stata composta indifferentemente da Vangelis, da Barry Gray o da John Williams. Oppure quella "Sputnik Suite" che, infarcita di tecnicismi sino al midollo, sembra volersi dare un'importanza che in realtà non ha, né rivestirebbe altrove.

 Sopravvive si, qualche sapore antico, come in quella Movenze degli Anelli di Saturno che a tratti ricorda lo storico assolo di Keith Emerson in Stones of Years, ma più si procede nell'ascolto (Episodio Lunare), e più si ha l'impressione di trovarsi nell'aula di un conservatorio. Sensazione piacevole per uno studente, ma non per chi, dopo anni di beat, mod e rock, confidava ancora nel punk per resistere a una società sempre più divisiva. 

Così, una volta concluso l'ascolto, "Movimenti nel Cielo" appare un'opera inesorabilmente divisiva: troppo classica per essere pop, e troppo pop per essere classica. Per nulla convincente quando cerca di enfatizzare le parti più ritmate, facendole assomigliare a dei brani da discoteca (del resto, siamo o non siamo in piena era disco?), e persino verbosa là dove certe sovraincisioni la fanno sembrare un outtake di Mike Oldfield

Ma non vorrei sembrarvi troppo severo. 

Siamo pur sempre al cospetto di un arrangiatore eccezionale (e si sente!), dell'Orchestra della Scala di Milano, e di musicisti venuti dal prog come Franco Di Sabatino che militò nel Rovescio Della medaglia a partire dal 1973, e il bassista Gigi Cappellotto che suonò invece nel primo album di Fossati e nel Disco Dell'Angoscia per l'Ultima SpiaggiaMusicisti che non solo fanno ciò che vogliono coi loro strumenti, ma che, se ispirati, trasformano certe partiture in capolavori. 

Come la prima parte de Il Sole, che senza mezzi temini impreziosisce tutto l'album, e ne dimostra il reale valore malgrado le osservazioni di chi ha sempre preferito una musica più libera e spontanea.

Vittoria Lo Turco (Fiamma dello Spirito) 1937-2024

Vittoria Lo Turco

 Il 17 giugno 2024 è mancata all'affetto dei suoi cari e di tutti noi,

Vittorina Lo Turco, in arte Fiamma dello Spirito

Un mio abbraccio personale a coloro che le hanno voluto bene,

in particolare a suo nipote Diego, e ai suoi figli Flavio e Fiammetta.

Buon viaggio, nostra dolcissima strega.

Alphataurus: Alphataurus (1973)

alphataurus 1973

Il quintetto degli Alphataurus (nome astronomico della prima stella della costellazione del Toro nota anche come “Aldebaran”) si forma a Milano nel 1970 dall’unione del tastierista Pietro Pellegrini con il cantante Michele Bavaro, il chitarrista Guido Wasserman, Alfonso Oliva al basso e Giorgio Santandrea alla batteria.

Malgrado un'intensa attività dal vivo tra cui il Davoli Pop e il Palermo Pop del 1972, la band non riesce a trovare un contratto discografico.

Fortunatamente però, al festival Pop di Palermo Vittorio De Scalzi, fresco dello scioglimento dei primi New Trolls e colpito dal sound e dal livello tecnico del gruppo, lo invita ad inaugurare la neonata etichetta “Magma”, fondata insieme al fratello Aldo.

Nasce così “Alphataurus”, un trentatrè giri destinato a entrare nella storia non tanto per il suo impatto commerciale che fu molto modesto, quanto per le unanimi lodi della critica specializzata che lo riterrà uno dei migliori dischi di Prog Italiano di tutti i tempi.
Per esempio, l’amico Augusto Croce lo definirà un “capolavoro”, il duo Gaboli e Ottone gli assegnerà cinque stelle su cinque, e Progarchives giudicherà il materiale “impressionante per qualità e maturità”.

Giudizi questi che premiano non solo l'effettiva qualità del risultato finale, ma anche la sua impegnativa gestazione che vide la band provare i brani molto a lungo, trattenendosi in studio anche per 6 ore consecutive. Tempo che le consentì di incidere incidere rapidamente tutte le basi, e impiegare il tempo residuo a perfezionare i suoni, aggiungere le sovraincisioni e mixare il tutto.
In questo senso, si pensi che tutti i suoni di archi e ottoni del brano "Croma" furono ottenuti sovrapponendo i suoni di un solo Minimoog. (fonte: www.alphataurus.it)

magma alphataurus 1973Registrato agli Studi SAAR Records e Sax Records di Milano (questi ultimi utilizzati solo per il brano "Dopo l'uragano", curato dal tecnico Enzo De Rosa), il disco si presenta con una splendida cover apribile in tre parti, opera del pittore brianzolo Adriano Marangoni (padre del "movimento cellulare" e già avvezzo alle copertine di dischi) che ben rappresenta i concetti portanti dell’opera: la perdita d'identità dell'uomo e i pericoli della nascente società tecnologica.

alphataurusI brani, tutti firmati da Pietro Pellegrini, sono cinque di cui tre occupano la prima facciata e gli altri due la seconda per un totale standard di circa 40 minuti. Si tratta di lunghe galoppate in atmosfere differenziate con momenti che spaziano dal romantico al melodico sino ad intrufolarsi con gran classe nel pop rock (“La mente vola”) e nel sinfonico (“Croma”).
I testi, dal canto loro, vengono invece sviluppati da tutta la band insieme a Vittorio de Scalzi il quale li depositerà in Siae con lo pseudonimo di Funky.

Musicalmente, svetta l'autorevole voce del cantante Michele Bavaro, anche se a tratti leggermente più stentorea del necessario (“Dopo l’uragano”). Pur se leggermente frammentarie invece, le parti strumentali che denotano una grande classe esecutiva,  - (sicuramente accostabile a quella di altri colleghi più noti), valorizzata da una produzione tecnica che restituisce un equilibrio acustico sorprendente.

Da escludere assolutamente l'intervento dei De Scalzi nelle parti vocali, anche là dove queste lo suggerirebbero data la loro somiglianza con lo stile dei New Trolls.
Resta comunque il fatto che in molti brani quali la già citata “Dopo l’uragano”,la voce Bavaro richiami non poco quella Di Palo, cosa peraltro non infrequente all'epoca.

Perfetta l’opening track del lato cadetto “La mente vola(9 minuti) che raggiunge un pregevole livello di composizione, arrangiamento, esecuzione e trasporto emotivo, bilanciandosi tra un testo molto spirituale e un incedere oltremodo travolgente.

Purtroppo, il numero delle copie stampate, la promozione dell'album, l’attività dal vivo e il coinvolgimento politico del gruppo, furono così tenui da circoscriverne inesorabilmente la conflittualità, e questo pur essendo nel periodo d’oro del Prog Italiano.

Forse si potrebbe anche parlare di una leggera frammentarietà del disco la cui concettualità non si espresse sempre con la dovuta scorrevolezza ma,
personalmente, ho sempre avuto l’impressione che Alphataurus fosse stato invece solo un primo esperimento dei De Scalzi.
E’ vero che venne curato con tutti i santi crismi, ma è altrettanto probabile che non venne fatto alcun ragionamento riguardo al suo impatto (marketing si direbbe oggi) o su come un prodotto del genere avrebbe potuto affermarsi in un mondo fortemente ideologicizzato.

E di fatto, così Alphataurus rimase: osannato da tutti ma sostanzialmente marginale. 

Michele Bavaro ci ha lasciati il 18 maggio 2024.

12 aprile 2024: BUON COMPLEANNO ROCK'N'ROLL !

12 Aprile 1954 Rock Around The Clock
ROCK AROUND THE CLOCK
BILL HALEY AND HIS COMETS, live 1955

Era il primo pomeriggio del 12 aprile 1954, esattamente settant’anni fa, e nell’ex sala da ballo di una potentissima loggia massonica, da poco affittata alla Decca Records, i Comets di Bill Haley (una band sveglia e tosta che già dal 1952 mischiava boogie e swing in modo del tutto particolare) si apprestavano a registrare il loro nuovo singolo. Parliamo naturalmente di un 78 giri

Sul lato A, ci sarebbe stato il brano Thirteen Women, a cui il proprietario della Decca Milt Gabler teneva moltissimo ma che nessuno aveva mai sentito, e sul lato B l'accativante boogie Rock around the Clock, scritto nel 1952 da Max Freedman e James Myers, che invece tutti conoscevano in quanto pubblicato il mese prima da Sonny Dae & His Knights, pur senza troppo successo.

Era un momento critico per la carriera dei Comets, che dovevano a tutti i costi bissare la loro hit Crazy Man Crazy incisa l’anno prima, e per esserne sicuri si avvalsero di due turnisti d’eccezione: il micidiale batterista Bill Gussak, e il prodigioso chitarrista degli Esquire Boys, Danny Cedrone

La mossa si rivelò azzeccata, e infatti, a parte qualche problema tecnico, il risultato fu eccellente. Soprattutto per quanto riguarda il lato B che si rivelò incredibilmente potente e ben riuscito.

1954-1974 Elvis Presley, Rock'n'Roll
ELVIS THE KING, 1954

E infatti, se Thirteen Women fu dimenticata, la nuova e dinamitarda versione di Rock Around the Clock ottenne un successo talmente eclatante, che il giorno della sua registrazione corrrisponderà per molti, a quello in cui nacque il Rock'n'roll

Anche se ovviamente, non tutti furono d’accordo. 

C’è chi per esempio sostiene che quel giorno fu piuttosto il 3 (o il 5) marzo del 1951, quando Jackie Brenston and his Delta Cats registrarono Rocket 88, che però (almeno secondo me) sembrava più un boogie che un rock

Altri parteggiano per il 18 luglio 1953, quando Elvis incise privatamente un 78 giri ("My Happiness") per regalarlo a sua mamma Gladys. Ma chi mai lo seppe se non lui e pochi altri? 

E infine, altri ancora dicono che il Rock'n'roll nacque il 5 luglio 1954, quando, sempre Elvis, pubblicò la sua versione di That’s All Right di Big Boy Crudup.

70 years rock n roll
HIS MAJESTY: CHUCK BERRY
Anche in questo caso però, l’arrangiamento era [forse] ancora un po’ folk, e le vendite si assestarono “appena” sulle 20.000 copie. Nulla in confronto a quelle di Rock Around the Clock che nel marzo del 1955 sbancò le classifiche di tutto il mondo, e si impose come icona del R'n'R grazie soprattutto all’uscita del film Blackboard Jungle, di cui fu la colonna sonora. 

Ma, al di là delle precedenze, perché il Rock'n'roll cambiò la musica e il mondo intero in maniera così irreversibile ed incondizionata? 

Proviamo a spiegarlo in tre mosse.

Primo: perché democratizzò ed estese a qualunque livello, tutte le potenzialità comunicative della musica popolare. Trascendendo la regionalità del folk, l’aristocrazia della classica, la nicchia del jazz, e assurgendo così a linguaggio universale ed accessibile a chiunque. E questo indipendentemente dalla proprio grado di consapevolezza o dallo status culturale, razziale o di classe.

Il Rock'n'roll creò poi un’empatia sino ad allora sconosciuta tra sé e il pubblico, usando argomenti e atteggiamenti immediati, diretti e riconoscibili, ed estendendo così la propria sfera d'interesse a tutti i livelli del vissuto. Chiunque poteva capirlo e chiunque poteva parlarne.

Rock n roll birthday
Be  Bop A Lula: GENE VINCENT
E infine, rivolgendosi principalmente ai teenager, ai loro gusti e alle loro problematiche, il Rock'n'roll contribuì non solo alla definizione di una nuova categoria sociale, quella dei giovani, ma alla loro trasformazione in un vero e proprio soggetto sociale.  

Una galassia nuova, dinamica e propositiva, dotata di modalità espressive, comunicative ed aggregative del tutto autoctone, di un proprio mercato, ed anche soprattutto di una propria visuale politica e sociale.

La stessa che in capo a una decina d’anni si tradusse nelle grandi rivendicazioni libertarie degli anni Sessanta (dal beat al garage, dalle protest songs alla psichedelia), e poco dopo nella grande era del rock anni Settanta. (progressivo incluso). 

In pratica, il Rock'n'roll pose le basi di quello stile che, grazie anche ai nuovi interessi e alle nuove tecnologie, si contaminerà ulteriormente sino a caratterizzare quella società condivisa di cui facciamo parte.

Il Rock'n'roll insomma, traghettò la musica nella modenità, e non solo producendo nuove immaginazioni, ma stimolando milioni di persone a produrne altrettante. 

Creando così quel circolo conflittuale che, insieme alla trasgressione, è una delle basi fondamentali dell’arte

Buon compleanno Rock'n'Roll.

Oggi fanno 70... e li porti benissimo!

Acqua Fragile: Acqua fragile (1973)

acqua fragile acqua fragileMA... CHE CI FA BERNARDO LANZETTI A "THE VOICE SENIOR 2024 "?

"Un gruppo di ottimi musicisti che purtroppo non ha ancora raggiunto un'espressione autonoma o perlomeno, discretamente originale".
Così nel 1975, "Il libro bianco sul Pop in Italia" descriveva gli Acqua Fragile. Considerando la severità ideologica del libro e i giudizi ben peggiori che riservò ad altre bands, questa valutazione poteva addirittura suonare come un complimento.

La storia degli AF ebbe inizio a Parma intorno al 1971, quando i tre superstiti del gruppo beat "Gli Immortali" (Bernardo Lanzetti, Gino Campanini e Pier Emilio Canavera), rimpolparono la formazione con l'ex "Moschettieri" Franz Dondi e il tastierista Maurizio Mori per sostenere una serie di concerti con il loro nome originale.
Notati dalla Premiata Forneria Marconi per la loro abilità esecutiva, i cinque vennero dapprima introdotti alla corte del potentissimo manager Franco Mamone e successivamente presentati a Lucio Battisti che li scritturò per la sua discografica "Numero Uno".
Nel frattempo, il quintetto emiliano non solo cambiò il nome passando dall'anacronistico "Immortali" al il più moderno "Acqua Fragile" ma, sempre grazie a Mamone, riuscì a conquistare un'enorme visibilità esibendosi nientemeno che a fianco di Soft Machine, Alexis Korner, Curved Air, Uriah Heep e Gentle Giant.

acqua fragile acqua fragile 01A coronare infine un battesimo così prestigioso, nel 1973 fece capolino nei negozi il loro primo ed omonimo 33 giri.
Costituito da sette pezzi interamente cantati in Inglese, co-prodotto da Claudio Fabi e presentato con un'eccellente veste grafica (copertina apribile in forma di poster 60x60 e busta interna con i testi tradotti in italiano), "Acqua Fragile" venne subito notato dalla critica ufficiale (Ciao 2001) che non mancò di esaltarne le sue indubbie qualità: ineccepibile tecnica musicale, ritmica possente, ottima voce, continuità e fluidità nella composizione.

acqua fragile acqua fragile 02C'era però un altro lato della critica (quella Controculturale) che, pur riconoscendo all'album le sue evidenti qualità strumentali, aveva sollevato non poche perplessità sia sull'ingerenza della lingua Inglese, sia sull'eccessivo ricalco di schemi stilistici già abbondantemente sfruttati dai Genesis o dai Gentle Giant.
Va da sé che, essendo il mercato discografico giovanile estremamente dipendente dagli umori del "movimento", il primo lavoro degli Acqua Fragile non venne completamente accettato: Lanzetti "tirava troppo per la giacchetta" Peter Gabriel e i Family e comunque, la Numero Uno di Battisti non era certo il miglior referente per le soggettività avanguardiste.

Certo è che, ideologie a parte, tra il disco dei cinque emiliani e certi lavori d'oltremanica, le assonanze non erano davvero poche.
Ad esempio, sin già dal primo brano "Morning Comes" ci si accorge che tutto è speculare ai Genesis: ci sono le grandi aperture orchestrali, i crescendo di Banks, le sincopi di Collins, i cori di "Selling England" e la chiusura di "Musical Box".
acqua fragile acqua fragile 03Persino l'effettistica sulla voce richiama quella di Peter Gabriel, cosa che valse a Lanzetti un pur rispettoso accostamento col suo omologo inglese.
A peggiorare la situazione, nei due brani successvi ("Comic Strips" e "Science fiction Suite"), le citazioni si estendevano anche ai Gentle Giant ai CSN&Y di "Judy Blue Eyes" e ai Velvet Underground ("All tomorrows parties"), rendendo l'album quasi parodistico.
Purtroppo, anche volendo trovare negli altri rimanenti quattro brani una traccia di personalità autonoma, non si incontravano che ulteriori richiami al prog inglese con appena qualche barlume di mediterraneità ("Three hands man").
Al di la di qualche doveroso sussulto critico quindi, il debutto degli Acqua Fragile non decollò.
Il loro album fu di fatto la dimostrazione lampante che la dedizione al ricalco non paga, pur se affiancata da una muscolare potenza esecutiva.
Fortunatamente, le idee migliori sarebbero arrivate più tardi.

Dire Straits - Vigorelli, Milano 29-6-1981

Dire Straits Vigorelli Milano 1981
DIRE STRAITS, Milano 29-6-1981
 Serie: VALS DEL RECUERDO  (I CONCERTI DI J.J. JOHN)


Merda! Se ci ripenso sembra ieri!

E invece sono passati ben 43 lunghi anni da quel caldo pomeriggio di giugno, in cui, alle quattro e mezza circa, io e il mio amico Marco (oggi stimatissimo dirigente) varcammo felici la soglia del Velodromo Vigorelli di Milano per assistere al concerto dei Dire Straits. Ora prevista: 21,30 – 22.

Ciò significa che, siccome eravamo appostati ai cancelli da almeno due ore, e ne mancavano sei all’evento, l'attesa totale ammontò a ben otto ore tonde tonde. Cose che fai solo a diciott'anni.

Per la cronaca, quel concerto era la terza data italiana del massacrante On Location world tour (115 concerti in tutto, incluse le apparizioni a Top Of The Pops e al Festival di Sanremo), cominciato a Vancouver il 22 ottobre 1980, e la sestultima prima della sua chiusura alla Hall Omnisports di Lussemburgo il 6 luglio 1981. 

Mister Fantasy 1981
29.12.1981 -  MISTER FANTASY:
CARLO MASSARINI intervista MARK KNOPFLER

Love Over Gold e Brothers in Arms dovevano ancora arrivare, quindi, chi presenziò quella sera, ascoltò perlopiù brani dai primi tre album: Dire Straits del 1978 che fece il botto con Sultans of Swing, il successivo Communiqué da cui uscirono Lady Writer e Once Upon a Time in the West, e l’iper-osannato Making Movies (quello di Romeo and Juliet e Tunnel of Love) che convinse me e il Marco ad acquistare istantaneamente i biglietti. Probabilmente - sostiene lui - da Transex, un negozio di dischi dietro il Duomo, all’epoca il rifugio privilegiato degli Heavy Metal Kids milanesi.

E chissà poi chi ci avvisò del concerto. Internet non c’era. Ci si affidava ai manifesti, alle radio libere, alle riviste specializzate e soprattutto al passaparola, e i biglietti, appunto, te li andavi a comprare dove c’erano. Non li stampavi dal computer, e nessuno te li portava a casa col corriere. 

Fummo comunque tra i primi ad averli, il concerto era garantito, e pianificammo tutto al meglio.
Parole d'ordine "tre quattro panozzi a testa, altrettante bocce d'acqua, e birra a profusione. Si va prestissimo, e appena aprono ci scaraventiamo dentro, per stare davanti". E così fu.

Dire Straits Vigorelli Milano 1981
VIGORELLI 1981 - KNOPFLER e LINDES

Peccato che la nostra stessa idea la ebbero almeno altre due-tremila persone, cosicchè all’entrata si creò un ingorgo davvero spaventoso. Qualcuno si fece pure male, ma alla fine arrivammo non proprio davanti al palco ma quasi. E comunque in pieno centro per goderci la stereofonia e tutto il resto.

Lo stage intendiamoci, era immenso ma essenziale. Niente fumi, botti,  scenografie digitali, congegni arcani, maiali volanti o quant’altro. Giusto le due torri laterali dell’amplificazione, gli spot, le americane in alto, e per il resto, tutto concentrato sulla band e sulla musica.

Non ricordo precisamente cosa facemmo durante l’attesa, ma so che ad un certo punto non riuscimmo più a stare sdraiati. E quando verso le nove il parterre fu bello pieno, arrivarono i Fisher Z, una band non particolarmente arrapante del Berkshire (GB), inizialmente votata al punk, ma ai tempi fresca del suo album più pop: Red Skies Over Paradise

Poco più che dignitosi, ebbero comunque il merito di risvegliarci dopo sei ore d’attesa (del resto è a questo che servono i gruppi spalla, no?), e dopo una mezz'oretta ancora, ecco finalmente i Dire Straits. Ad accoglierli, trentamila persone.

Giù le luci, tutti i fari puntati sul palco, “Good evening ladies and gentlemen. Welcome to the Vigorelli!”, e vai con Mark Knopfler che in giacca rossa, maglietta bianca e fascia d’ordinanza, attacca Once Upon a Time in the West, limpido come Hank Marvin e sfacciatamente strappato ancor più del Marc Bolan di Ride a White Swan. Mai si era sentita una band che si appoggiasse solo su quel sound, e naturalmente, nessuno l’aveva mai vista dal vivo. 

Dire Straits Sanremo 1981
DIRE STRAITS A SANREMO 1981
Tre dita di intelligenza”, disse di Knopfler qualche arguto critico. Forse uno del Ciao 2001.
Sound chiaro e portentoso, tempo splendido, entusiasmo a mille. Esattamente quel che ci aspettavamo e che volevamo sentire. Poi la mia memoria si perde davanti al grande palco, e a questo punto, chiedo aiuto a chi c’era.

Due cose però ricordo molto bene.
La prima fu l’incredibile vitalità di una band che aveva pur sempre - e da oltre otto mesi - centodieci concerti sul groppone a ritmo di quasi uno ogni due giorni. “Una cosa normalissima”, direte giustamente voi. Eppure a me stupì quanto il sound fosse straordinariamente fluido e compatto. Nessuna flessione, nessuna incertezza.

Ma ciò che rimase davvero nel mio cuore, e che mi sembra di rivedere ancora adesso, fu quando, sulle prime note di Romeo and Juliet, un fascio di luce bianca centò in pieno la dobro metallizzata di Knopler, irradiando nel cielo, centinaia di raggi luminosi.

Una minuzia d'altri tempi? Sarò io che forse sono troppo romantico? Forse. Ma erano magie di un tempo in cui (Pink Floyd a parte), le grandi scenografie non erano ancora patrimonio di tutti, anzi. E le grandi emozioni del rock si coglievano dai particolari. A volte anche da una nota soltanto. E io me le ricordo tutte.

Che poi oggi sia meglio o sia peggio, non sta a me sindacare. Ma sono felice di aver vissuto quei tempi... e di poterveli raccontare.
A presto.

DIRE STRAITS, Velodromo Vigorelli,  Milano 29-6-1981
Mark Knopfler: vocals, lead guitar
John Illsley: bass
Hal Lindes
: guitar
Pick Withers: drums
Alan Clark: keyboards

PLAYLIST: Once Upon a Time in the West - Expresso Love - Down to the Waterline - Lions - Skateaway - Romeo and Juliet - News - Sultans of Swing - Portobello Belle - Angel of Mercy - Tunnel of Love - Telegraph Road - Where Do You Think You're Going? - Solid Rock

Blues Right Off: Our Blues Bag (1970) - Un esemplare curioso.

NEI COMMENTS CI SCRIVE CLAES CORNELIUS, CHITARRISTA DEGLI OUR BLUES BAG



 Recentemente mi è capitata sott’occhio questa copia senza copertina di Our Blues Bag dei Blues Right Off, croce e delizia di tutti i collezionisti di pop italiano. 

blues right offPurtroppo, la label presentava scritte e vistosi segni di pennarello che deprezzano l'intero Lp, ma che, se osservate attentamente, spiegherebbero ulteriormente la sua difficile reperibilità.
Vediamo perché. 

1°) Innanzitutto sono stati cancellati tutti i riferimenti alla formazione originale dei Blues Right Off e dei suoi collaboratori: il nome della band, quello di Claes Cornelius che compose tutti i brani dell’album, e quello di Ermanno Velludo che fu l’allora tecnico del suono. 

2°) Compare poi una curiosa scritta in alto a destra del lato A, “BLUES SOCIETY, 1972”, con la sola data replicata sul lato opposto “1972”. 

A questo punto verrebbe da chiedersi come mai un simile cimelio sia stato sfigurato al punto di abbatterne il valore a poche centinaia di euro, se non meno. 
Io precisamente non lo so, e anzi spero che qualcuno dei diretti interessati si faccia vivo per spiegarcelo.
Ho però elaborato una mia versione che credo possa essere attendibile

Come noto i Blues Right Off si sciolsero nel 1970 dopo la pubblicazione del loro primo Lp. 
Sappiamo che Claes Cornelius se ne tornò in Danimarca nel 1974, ma soprattutto che il bassista Giancarlo Salvador confluì, guarda caso, proprio nei Blues Society del compianto Guido Toffoletti, bluesman già attivo sulla scena veneziana dai tempi del beat.

Potrebbe dunque starci che alcune copie del prezioso Our Blues Bag siano state utilizzate nel 1972 come demo dalla Blues Society? Che so, per presentarsi al gestore di un locale, a una radio, o comunque per fungere da biglietto da visita di una band che non aveva ancora inciso nulla, ed era probabilmente allo stato embrionale? 

Ciò spiegherebbe come mai sarebbero stati cancellati tutti i riferimenti agli Our Blues Bag, perché sarebbe sparita la copertina sulla quale ovviamente c’erano tutti i credits a loro relativi, e perché comparirebbe appunto la scritta "Blues Society".

Ora, quanti esemplari come questo abbiano subito la stessa sorte, non lo so. In ogni caso si tratterebbe di una quantità copie rovinate che avvalorerebbero ancora di più quelle sane, rimaste ormai davvero poche.
Chi sa qualcosa, si faccia avanti.

Donatella Bardi: A Puddara è un vulcano (1975)

Donatella Bardi A puddara è un vulcano Donatella Bardi nasce a Torino nel 1954 da padre pittore e madre insegnante di disegno, ma diventa subito milanese d’adozione essendosi trasferita nella metropoli lombarda a soli due anni.Trascorre quindi l’adolescenza negli anni più vulcanici di una città in fermento e appena l’età glielo consente, inizia a sfruttare la sua splendida voce.
 

Collabora dapprima con Alberto Camerini, Pepè Gagliardi, Alberto Tenconi e Antonello Vitale in una band psichedelica in stile underground chiamata la “Dreaming Bus Blues Band”.
 

In seguito è la protagonista femminile della band “Il Pacco” formata sempre da Camerini (che avrà con lei anche una storia d’amore durata cinque anni), da suo fratello minore Lucio Bardi che riaffiorerà costantemente nella sua vita artistica, da Eugenio Finardi, Ricky Belloni (futuro Nuova idea) e da Lucio “Violino” Fabbri poi in forza alla scuderia della PFM. 

Onnipresente nel circuito controculturale, collabora come corista nel 1971 al disco di Claudio RocchiVolo magico n°1”, affianca Fausto Leali al festival di Sanremo 1973 e, sempre come vocalist, appare nella canzoni “Bambulè” di Camerini, “Chiaro” di Loy e Altomare, “Se si sa senza senso” dell’Equipe 84,Enorme Maria” di Simon Luca e in “Tutto subito” di Eugenio Finardi.
 

Dopo qualche tempo di permanenza in una comune siciliana per risolvere alcuni problemi personali, partecipa con “Il Pacco” alla Festa del proletariato giovanile del 1974 al Parco Lambro e questo suo attivismo (che le farà vestire anche i panni d’attrice) la porterà non solo ad interagire con figure di primissimo piano del rock progressivo quali Demetrio Statos e Paolo Tofani, ma catturerà infine l’attenzione della prestigiosa discografica Elektra che l'anno successivo pubblicherà il suo unico lavoro solista a 33 giri: “A Puddara è un vulcano”.

donatella bardi
Ad affiancare Donatella in sala d’incisione ci saranno il fratello Lucio, il padre Mario che reciterà la title track scritta dal poeta Michele Montagnese in dialetto palermitano, il fido tastierista Gianfranco “Pepè” Gagliardi, il batterista Antonello Vitale e il bassista Paolo Donnarumma, futuro collaboratore di Alberto Radius e in questo caso produttore e tecnico del suono. 

Tra gli ospiti, un certo Kevin Boullen (nome poi contratto in Bullen) alla chitarra destinato a diventare uno dei più corteggiati bassisti della scena milanese anni ’70. 
E a questo punto, eccoci alla disamina dell’album che – premettiamo - malgrado alcuni abbiano inscritto nella categoria “prog”, non ha nulla a che vedervi rappresentando semmai uno spaccato estremamente spontaneo e sincero di quel movimento giovanile che nella seconda metà degli anni ’70, si stava incamminando verso nuove, importanti e dolorose mutazioni.

Nel 1975 in effetti, tutto è più che mai in discussione: la riappropriazione degli spazi, della musica, della merce e del sistema informativo. Del ruolo della donna e della famiglia, dell'austerità e delle nuove metodologie repressive.
Qualunque collettivo cerca la propria strada da mettere al servizio di un mondo migliore e a differenza di due anni prima, si respira molta più positività, grazie anche alla forte ascesa del PCI nelle elezioni del 13 giugno.


Donatella però è proprio giovane e malgrado le frequentazioni “impegnate” non ha una coscienza politica tale da scrivere “Area 5” o ”Campagna”, ma possiede semmai un’anima sorridente e positiva che a discapito della militanza dei colleghi, trasmette molta più “gioia” che “rivoluzione” affrescando così uno dei momenti più fecondi della nostra cultura alternativa.

"Regina in quest'età" sembra quasi una canzone femminista ma senza esserlo, "Cioccolata con panna" racconta il movimento con una limpidezza talmente disarmante da non poter non essere vera, "Punto e a capo" possiede una gioia silvestre da sembrare scritta prima della grande urbanizzazione e la prima traccia "Forget" è pura poesia condensata sorprendentemente in soli sessantaquattro secondi. Una delle intro più brevi della musica italiana.

 
a puddara è un vulcanoCome un angelo lei accompagna la sua generazione che malgrado le mille difficoltà, sta crescendo, irrobustendosi e trasformandosi:
"Ogni frutto è raro, ha una storia da seguire / dall'inizio un seme che da solo può fiorire / cerca luce / il sole la porterà / cerca l'acqua / la pioggia lo bagnerà" (da “Cioccolata con panna”).
 

La storia però ci dice che il candore di Donatella si scontrerà presto con un realtà diversa in cui molti sogni dovranno presto lasciare il passo alla controrivoluzione e al riflusso.
 

Il suo “mondo in riva al mare” fatto di “paesi meravigliosi” e di “colori che raccontano la loro ora” soccomberanno alle nebbie dei lacrimogeni e ai manganelli della “legge Reale”.
Lei enterà in crisi, avrà qualche problema con "brutti miscugli di pillole" (cfr: Enzo Gentile) e alla fine si ritirerà per lungo tempo a vita familiare dando alla luce tre figli e progettando altre immaginazioni ch però non avranno modo di realizzarsi.


I sogni a 33 giri di Donatella verranno dimenticati in fretta e solo quell'immaginario fatto di “tanto lavoro di mani” e di “semi innaffiati che fioriranno” sopravviverà alla sua stessa autrice stroncata il 13 dicembre 1999 da un’emorragia celebrale ad appena 45 anni.

Soffice e conciliante al limite dell'ingenuità, la Bardi lascerà però un messaggio unico nel panorama autorale degli anni '70: "cogliere il bello della vita nel momento in cui viene vissuta". Un po' prosaico a dire il vero, ma straordinariamente sincero

Almeno per come lo trasmise lei.

TRACKLIST: -A- 1.Forget 2.Perchè dovrei credere 3.Punto e a capo 4.Regina in quest'età 5.No! 6.Oberator Mask -B- 1.A Puddara 2.Cioccolata con panna 3.Fratello Antonino 4.Aeroplano 5.Per favore non sbattete la porta

Area: un gruppo dal valore aggiunto.

rock progressivo italiano

  NEI COMMENTI: CLAES CORNELIUS dei BLUES RIGHT OFF.

Che gli Area siano stati un gruppo fondamentale per lo sviluppo del rock italiano è cosa nota: c’è una vasta bibliografia in merito tra cui ricordo lo splendido “Libro degli Area” di Domenico Coduto, c'è un passaparola che rivitalizza incessantemente le loro gesta e la loro arte, nonché un periodico fiorire di iniziative, concerti e tributi che dimostrano come la musica e il messaggio di Demetrio e compagni abbiano ancora oggi ancora un valore inestimabile. 
Già. Ma quale valore? 

Innanzitutto la conflittualità: ambasciata dai loro cinque album in studio che, tra il 73 e il 78, traghettarono il rock progressivo da espressione stilistica a strumento di comunicazione antagonista, riflettendo così sogni e rivendicazioni di un’intera generazione di militanti.  

Poi, parlerei anche di una forza comunicativa ben al di sopra della media: certamente debitrice a quella straordinaria macchina da marketing che fu Gianni Sassi, ma anche autoctona nella capacità di inventarsi sempre nuove strategie per dialogare col pubblico. Dal famoso “offertorio delle mele” alla geniale trovata del cavo elettrico tirato in mezzo al pubblico che modulava il sequencer di Paolo Tofani

stratos fariselli tofani capiozzo tavolazzi
Foto: Roberto Masotti
Infine, lo stakanovismo quasi eroico nell’esibirsi sempre, comunque e dovunque, gratis o no: per non perdere di vista neppure un ascoltatore e diffondere quel messaggio rivoluzionario del quale erano convinti tutti e cinque senza esenzione alcuna. Un costante lavoro di sperimentazioni e di contaminazioni, che Demetrio portò anche avanti per conto suo, esplorando a suo rischio e pericolo le possibilità più estreme della voce umana.

Difficilmente, credo, queste istanze furono proprie di altri gruppi degli anni Settanta, ma neppure di quelli successivi se escludiamo alcune formazioni ultraradicali dell’hardcore anni 80 o dei Centri Sociali che però, a parità di impatto, non godettero mai nè della stessa popolarità, né riuscirono (salvo rarissime eccezioni) ad uscire dalle maglie dell'underground. E questo  sia perché, nel frattempo la forza repressiva del sistema era aumentata , sia perché, in effetti, gli Area ebbero alla base una strategia operativa molto più efficace.

Di fatto, essi difesero la loro unicità intellettuale con un comportamento tanto aperto nei confronti delle masse quanto critico al limite dell’accidia nei confronti di certi loro colleghi: primi tra tutti, la Premiata Forneria Marconi. Ma in fondo, non fu una scelta sbagliata. 
Del resto, in un mondo ipercompetitivo e pericolosamente instabile come quello dei movimenti, arroccare la propria ideologia dietro un’immagine forte e impermeabile ai contraddittori, era forse l’unica soluzione possibile per mantenerla intatta. 

rock progressivo italianoE se molti dei loro proclami sembravano calati dall’alto - per non dire supponenti - è anche vero che nessuna delle loro provocazioni passò mai inosservata: perché innovativa, perché attendibile, ma soprattutto perchè frutto di basi e progettualità solidissime, nate dalla perfetta armonizzazione tra la band e i suoi collaboratori. 

In più, a differenza di molti colleghi che si contraddissero corteggiando il mercato americano, gli Area non commisero mai quell'errore, preferendo piuttosto concentrare la loro attività in Italia, o, al limite, sperimentare le loro potenzialità in nazioni più libertarie: Francia e in quel Portogallo appena fresco di democrazia. Sicuramente perdendoci commercialmente, ma mantenendo illibata la loro coerenza

Anzi, è davvero straordinario appurare come, proprio oltralpe, il loro percorso artistico e politico venne recepito addirittura meglio che da noi, dove spesso era oggetto di attacchi e fraintendimenti. Lo dimostrò ad esempio, la lunga introduzione della presentatrice portoghese al loro live set di Lisbona, la quale tracciò un profilo straordinariamente lucido non solo dei musicisti, ma dell’intera situazione italiana: privilegio che, all'epoca e a livello nostrano, apparteneva solo a pochissime avanguardie intellettuali

Dopo la morte di Demetrio nel giugno del 79, e la successiva agonia del gruppo, nessuno come loro si sarebbe mai più ripresentato sulla scena italiana: da un lato perché si chiuse l’era dei movimenti e mutarono le condizioni politiche, ma soprattutto, poiché venne meno uno dei più solidi collettivi musicali della storia musicale italiana, là dove ogni singola personalità era imprescindibile per la sua esistenza. Ancora oggi un esempio, direi, per chiunque voglia fare della propria musica, una professione.

Alberto Radius: America Good-Bye (1979)

america good-bye
Nel 1979 il rock progressivo era ormai acqua passata, e molti dei suoi interpreti lo avevano da tempo rinnegato per un posto al sole. La PFM incubava il cantereccio Suonare Suonare, Alan Sorrenti deliziava le casalinghe, l'ex Rovescio della Medaglia Michele Zarrillo vinceva Castrocaro, e le Orme, chissà perché, regredivano al XVII° secolo

Gli aromi di un tempo però, erano pur sempre indispensabili per insaporire qualunque nuova produzione. Non a caso Gino Paoli chiamò a raccolta Elio d'Anna degli Osanna, Franco del Prete dei Napoli Centrale e Tony Esposito per il suo inestimabile Ha Tutte Le Carte In regola (omaggio all'amico Piero Ciampi appena scomparso).  

Pino Daniele reclutò Agostino Marangolo dei Flea/Etna, Tony Cicco della Formula Tre, Francesco Boccuzzi del Baricentro, e James Senese dei Napoli Centrale, mentre Paolo Conte registrò Un Gelato Al Limon insieme all'ex Locanda Delle Fate Ezio Vevey, a Renato Mantegna dei Dedalus, a Francone Mussida della Pfm, e al fu Area Patrick Djvas.  

Rino Gaetano intanto si era preso Gaio Chiocchio dei Pierrot Lunaire, e Guccini i Pleasure Machine al gran completo, più Antonio Marangolo dei Flea e Gianfranco Coletta della RAM

Eppure, mentre gli alfieri del pop italiano si accasavano sotto nuovi tetti, anche a costo di rinnegare il loro passato, c'è chi invece mantenne la propria coerenza, e tradusse quel momento di transizione in un album-capolavoro

alberto radius

Parliamo di Alberto Radius che tra una produzione e l'altra trovò il tempo di pubblicare il suo quarto Lp da solista, America Good-Bye, sospeso tra il disincanto per un passato in dissoluzione, e i miraggi sponsorizzati dal nuovo ordine mondiale

Un disco geniale che prese a prestito le incongruenze del mito americano per sbatterci in faccia le nostre, e rivelò una ad una tutte le contraddizioni in una società solo apparentemente sana

Tecnicamente: otto brani firmati dallo stesso chitarrista su testi di Daniele Pace e Oscar Avogadro, qui in particolare stato di grazia.
Arrangiamenti del sopraffino jazzista Sante Palumbo, e ritmica d'eccezione: uno scatenato Tullio De Piscopo in overdose di Synare
Il tutto registrato nel nuovo e fiammante studio di Alberto che di lì a poco avrebbe ospitato Alice, Battiato, Faust'o, Giuni Russo e molti altri. 

E veniamo al disco. 
Attacco fulminante con un omaggio al prog, ed è subito una parata di stelle spente: eroi sconfitti dal loro stesso mito, ma anche da quel potere rancido ben fotografato nella successiva Poliziotto

America GoodbyeÈ poi la volta di California Bll, in assoluto il mio preferito dell'album. Splendido affresco di una California popolata di "uomini e donne belli come nei sogni", dove persino  Dio "verrebbe a morire", ma talmente idealizzata da apparire infine irreale. Anzi, talmente posticcia da trasformare questo brano in una sorta di California dreamin al contrario. E scusate se è poco.  

Stop al primo lato con  Il Buffone, omaggio a Cassius Clay su una cassa ribattuta non particolarmente memorabile, e si riparte con la più grande leggenda metropolitana di Manhattan: i Coccodrilli Bianchi che qui incarnano magistralmente le fobie del vivere urbano in sala yankee, quasi fossero moderni Frankenstein o rifiuti tossici. 

Ed è nuovamente il turno di altri due gioielli Patricia e Giù. Nel primo c'è tutto il dramma delle minoranze latine immigrate nelle metropoli della West Coast, e nel secondo quello dei cosiddetti binge drinkers (gli alcolizzati del fine settimana), fenomeno diffussissimo anche nei nostri weekend degli anni ottanta. 

Chiude in bellezza l'ennesima icona a stelle e strisce: Las Vegas, Città posticcia e icona del gioco d'azzardo in cui si è benvenuti sinché si hanno soldi da spendere. “Fino all'ultimo gettone hai diritto alla moquette”, e dopo 35 minuti si ha la sensazione di aver ascoltato un lavoro eccellente sia musicalmente che per qualità poetica. 

Una riconferma di Alberto insomma dopo l'altrettanto avvincente Carta Straccia, che ci restituisce un Radius perfettamente a suo agio tra il suo passato di rocker progressivo e il suo nuovo ruolo di cantautore. Tanto di cappello infine alla preziosa copertina multistrato di un Luciano Tallarini al top della sua creatività.