Procol Harum: A whiter shade of pale (7", 1967)

procol harum a whiter shade of paleSERIE: LE RADICI DEL PROG n°3

Il 12 maggio 1967, circa venti giorni prima dell’uscita del rivoluzionario album dei BeatlesSergeant Pepper’s lonely heart club band”, fece capolino sugli scaffali dei negozi “A whiter shade of pale”, il primo 45 giri dei Procol Harum, che di lì a poco sarebbe passato alla storia.

In meno di un mese il brano raggiunse la vetta delle classifiche inglesi da dove non si sarebbe più mosso per sei mesi, arrivò senza alcuna promozione nella top five americana e in capo a 10 anni, sarebbe stato uno tra i 30 singoli al mondo ad aver oltrepassato i dieci milioni di copie vendute.

Come se ciò non bastasse, fu il numero uno nelle classifiche di almeno 6 nazioni e venne tradotto in un’infinità di lingue tra cui l’italiano dove grazie a Mogol e ai Dik Dik diventò “Senza Luce”.

Artefice dell’operazione fu ancora una volta la Decca che nell’intento di rinnovare il mercato discografico inglese, consigliò anche ai Procol Harum (come aveva fatto con i Moody Blues) di tentare una compenetrazione tra musica classica e rock.

La band accettò e per una serie di combinazioni fortuite e di intuizioni straordinarie, sortì per mano del
pianista Gary Brooker, dell’organista Matthew Fisher e del paroliere Keith Reid un vero e proprio miracolo artistico e commerciale.
La canzone infatti non solo si innestava perfettamente nel proprio tempo storico per struttura, mole e qualità degli ingredienti musicali, ma anche per l’ appetibilità dei suoi riferimenti letterari, per la loro consecutio narrativa e per quella giusta dose di visionarietà che aderiva perfettamente al lato più psichedelico della “swinging London”.

procol harumMusicalmente, i riferimenti principali erano tre: "l’Aria sulla quarta corda” di Bach su cui era imperniata l’intro di Hammond M 102 di Fisher, la cantata BWW 140Wachet auf, ruft uns die Stimme”, sempre di Bach e a sua volta ispirata alla “Parabola delle Vestali” di Gesù Cristo e infine, dalla hit del 1966 di Percy SledgeWhen a man loves a woman” a cui Broker e Fisher si sipirarono per il groove dell’inciso.

Una serie di citazioni dunque che da un lato investivano tutta la cultura classica e persino religiosa ma dall'altro venivano restituite con modernità tramite una produzione impeccabile: quella di Denny Cordell che per realizzare il tutto si avvalse degli atrezzatissimi Olympic Sudios di Londra e del loro tecnico Keith Grant.


Ciò che però contribuì a fare del brano un’opera completa furono sicuramente i testi di Keith Reid, il “sesto membro” dei Procol Harum il quale licenziò certamente delle liriche oniriche e visionarie, ma che attenevano alla realtà con una forza tale da renderle universali e riconoscibili a tutto il mondo, entrando persino a far parte del gergo giovanile di allora.

Una maestria poetica, quella di Reid, già percepibile dallo stesso titolo: “A whiter shade of pale”, che sarebbe di per se intraducibile. In inglese infatti “to turn pale” significa “impallidire” e “a shade of...” equivarrebbe a “una tonalità di...” o “una sfumatura di...”, tuttavia la frase intera si prestò a tante di quelle interpretazioni e traduzioni da diventare non solo argomento bibliografico, ma restare a tutt’oggi ardua da tradurre correttamente.
Entrò quindi nello “slang” giovanile riferendosi a una persona che impallidisce, trasecola quasi sino allo svenimento o, nell’accezione psichedelica, viaggia, si perde o, volendo, si sente male.


a whiter shade of paleE anche se il titolo potrebbe sembrare metafisico, la stroria volle che Reid si ispirò a un fatto realmente successo in un dancing dove una ragazza già di per se pallida come un fantasma (“at first just ghostly”) impallidì nuovamente per qualche motivo di un "pallore ancora più ceruleo".

Tenendo ancora fede ad un perfetto equilibrio tra poetica e quotidiano, Reid ambientò la canzone a partire da un concerto dei Procol Harum - tanto concitato che il soffitto volò via - al termine del quale seguì una conversazione così coinvolgente da far impallidire un interlocutore.
Ad essa seguì poi una specie di partita a carte in cui si innestarono tutte le citazioni più visionarie del brano: l’incertezza riguardo a quel trasecolare tanto evidente quanto misterioso, le sedici vestali vergini (nella parabola del Cristo erano in realtà dieci) e uno strano finale sospeso tra veglia e sonno prima dell’inciso finale.

La versione originale comprese anche due ulteriori strofe, spesso cantate dal vivo ma allora inedite, dove la giocatrice di carte sembrerebbe essere allo stesso tempo una delle vestali o addirittura l’essenza della musica che poi i musicisti avrebbero seguito nel suo viaggio per l’oceano. Il tutto, restituito con continue citazioni Shakespeariane e rimandi alla partita di carte.

Chiaramente all’epoca, come per molti testi psichedelici, non era fondamentale “capire” realmente le parole, ma “assimilarne” il percorso e in questo senso, la molteplicità delle immagini fornite dalla canzone, contribuirono a renderla poeticamente universale.

Poco progressiva se non per il mix pop-barocco e molto abusata nel tempo. “A whiter shade of pale” tuttavia non perse mai la sua forza evocativa dimostrando la conflittualità delle sue componenti e dando il via a tutta una serie di sviluppi che in pochi anni avrebbero condotto al prog vero e proprio.

11 commenti :

aliante ha detto...

Ciao John. Ottima recensione di una canzone straordinaria e senza tempo. Devo dire però che la versione italiana l'ho sempre trovata debole, sia nel cantato che nel testo.

Anonimo ha detto...

Ciao JJ, recensione eccezionale, nel vero senso della parola.
C'è su YouTube una versione dal vivo di alcuni anni fa, con inciso strumentale ampliato ed inedito su disco.
Molto bello, ed i... ragazzi sono ancora grintosi!
Ezio

Daniel ha detto...

A mio avviso una delle più belle canzoni di sempre, inarrivabile per certi versi. Sarà anche merito di Bach, ma ci vuole del talento anche per "rubacchiare", miscelare e rinnovare. Il testo poi è superbo... ricordo quando da piccolo sentii per la prima volta partire la voce che diceva "we skipped the light fandango..." e nemmeno sapevo che era il fandango, ma in quel contesto e con quella melodia mi sembrò una delle parole più fighe che avessi mai sentito.

Quickly ha detto...

Ottimo commento; a mio avviso un'opera degna di essere introdotta nei programmi di insegnamento di musica nelle scuole medie per la sua capacità di miscelare il classico con il moderno, le parole con la musica, le sensazioni che il suo ascolto fa nascere. Quickly

Roberto ha detto...

Ci sono solo due categorie di canzoni:
In una c'è "A whiter shade of pale", nella seconda ci sono tutte le altre.

Complimenti per la recensione.
Roberto

Enzo ha detto...

La più bella canzone mai scritta! Condivido e faccio mio il commento di Roberto: Eì una melodia magica, vera colonna sonora della mia vita e la farò suonare al mio funerale

claudio65 ha detto...

Questa è sempre stata la "mia" canzone, ascoltata dal mangiadischi fin dalla più tenera età. Infatti, a casa mia, c'era il 45 giri della versione originale inglese, distribuito con i formaggini della "Prealpi" (ed aveva difatti l'etichetta "Prealpi"). Ma, al di là dei formaggini, quella melodia strumentale mi è entrata dentro fin dall'infanzia e non mi ha più abbandonato. Così come non mi ha più abbandonato la passione per l'organo Hammond. Davvero una pietra miliare nella storia del rock, il punto di svolta dal beat al progressive. Un colpo di genio che a distanza di quasi cinquant'anni continua a stupirci ed a spiazzarci. Capolavori come questi non hanno tempo né età. E non è retorica.
La versione italiana (dei mediocri Dik Dik), pure molto famosa, è debole sia nel testo che nella strumentazione. Nella versione originale dei Procol Harum il suono dell'Hammond ha ben altra potenza e profondità. Non c'è proprio paragone.

MarioCX ha detto...

I Procol Harum, ai quali sono molto affezionato, sono uno di quei gruppi che non sono mai riusciti a fare veramente un bell'album.
Insomma,un "Pet Sounds" o un "Forever Changes" non gli è mai venuto.

Hanno però sicuramente regalato al mondo alcuni pezzi che sono conosciuti dal porco di Rovigo al varano di Komodo, il che non è affatto poco.

Quando sono al mare in inverno e sento il verso dei gabbiani ho sempre un sussulto di emozione.
Avrete tutti capito perchè.

claudio65 ha detto...

Ho acquistato sabato scorso la ristampa dell'LP dei Procol Harum con in copertina la ragazza diafana su sfondo nero (quello del Gennaio 1968). La ristampa in CD contiene "A Whiter Shade of Pale" e "Homburg" come "bonus tracks". E' stampato dalla Esoteric Records e credo sia anche disponibile in vinile. Ve lo consiglio! E' davvero il primo disco di Prog della Storia. Il suo sound non ha più nulla a che fare con gli anni sessanta. E' un disco davvero imperdibile, che io considero al livello di "Sergent Pepper" dei Beatles o di "Mr Fantasy" dei Traffic.

JJ ha detto...

Ero stato a vederli qui a Milano circa tre anni fa al Teatro Dal Verme, in occasione della promozione di "Novum" (che titolo orribile)....
Della formazione originale c'era solo Gary... ma anche lo storico HAmmond M102 con tanto di Leslie. Magari un po' restaurati, ma perfettamente funzionanti.
Onestamente ero titubante. Non mi attizzava proprio andarci, ma Marina, mia moglie, non mi ha dato alternative. "Se non mi ci porti, divorzio". Ed eccomi in mezzo alla folla ad abbassare l'età media degli astanti. Palco essenziale, scenografie pressoché inesistenti, le nuove canzoni, carine, ma nulla più.

Ma una cosa, davvero mi ha pietrificato: LA VOCE di Gary.
Una potenza inverosimile che, malgrado l'età, portata tra l'altro maluccio (avete presente il classico inglese vecchio e ubriaco), imperava sovrana e magnifica scuotendo tutti gli anfratti del teatro, e chi ci stava dentro. Me incluso.
Una vociazza ancora blues e rugginosa ma fottutamente melodica (tipo Joe Cocker, per intenderci), che negli anni Sessanta deve aver sconvolto chiunque la sentisse.
"Ecco", mi dicevo ascoltandola "perchè fecero storia".
Una voce così... una canzone perfetta... la poesia... gli arrangiamenti....
insomma... la storia del rock.

Già lo sapevo, ovviamente. Ma sentire Gary dal vivo, è stata tutta un'altra storia.




Anonimo ha detto...

Brano epocale !

R.I.P. Gary Brooker

Michele D'Alvano