Moody Blues: Days of future passed (1967)


Nella seconda metà degli anni ’60, il rock inglese viveva un momento di grande effervescenza trainata sia dal boom economico che fungeva da volano per il mercato discografico, sia dalle straordinarie imprese dei Beatles che avevano riconfermato l’Inghilterra quale epicentro della nuova creatività giovanile: una nazione che era diventata non solo commercialmente impermeabile a qualunque tentativo di imitazione e reimportazione della propria musica (ad esempio da parte della garage bands americane), ma un incessante generatore di stili che venivano irradiati in tutto il mondo: psichedelia, blues, folk, pop e hard rock.

Nel 1967 però, con l’uscita del loro capolavoro “Sergeant Pepper’s”, molti addetti ai lavori cominciarono a chiedersi con una certa inquietudine cosa sarebbe successo nel momento in cui i Beatles avessero esaurito la loro parabola creativa: cosa che peraltro si verificò nei due anni successivi.

La soluzione fu di correre rapidamente ai ripari proponendo un nuovo stile che non solo fosse moderno e musicalmente inedito, ma in cui la generazione della “swinging london” avesse potuto identificarsi e riconoscersi proprio come aveva fatto sino a quel momento con il british beat.
Un genere che fosse tanto sovversivo quanto abbastanza colto da attrarre anche la borghesia collegiale sinora snobbata dal rock; radicato profondamente nella cultura europea per evitare qualunque confusione col rock-american e poeticamente onirico in modo da conndensare in un solo kernel l’utopia del flower power con la grande tradizione della narrativa inglese, da Shakespeare a Tolkien.

Il lampo di genio arrivò da una delle case discografiche allora più innovative della scena mondiale, la Decca Records, che per lanciare la sua nuova etichetta Deram e la sua nuova tecnologia d’incisione detta “Deramic Sound(un primitivo otto piste composto da due registratori a 4 tracce che lavoravano in simultanea), convocò la band dei Moody Blues chiedendo loro di comporre e incidere una versione rock della “Sinfonia del nuovo mondo” del maestro cecoslovacco Antonin Dvořák.

the moody bluesSecondo la testimonianza di Derek Varnals, allora tecnico della Decca, i Moodies però non ce la fecero a completare il progetto originale, pur rimanendo affascinati dalla prospettiva di poter mescolare rock e musica classica.

Contro qualunque scetticismo della loro discografica, convocarono allora il maestro Peter Knight e la London Festival Orchestra per la realizzazione di un concept in chiave rock-sinfonico: la storia della giornata di un uomo qualunque dal risveglio sino alla notte sul modello dell’Ulisse di James Joyce. E la mossa fu quella giusta.

Sulle prime il lavoro fu pesantemente criticato dalle frange più perbeniste della società inglese per il presunto uso di droghe da parte del gruppo, (vedasi i versi “l’odore dell’erba ti ha indotto a sognare”) ma più realisticamente, l’entusiasmo unanime di tutta l’audience giovanile – borghese e non – fece di “Days of future passed” uno dei dischi seminali della storia del rock.
Di fatto, la sua inedita commistione tra classico e pop, il ricorso a nuove tecnologie strumentali e produttive, la sua straordinaria omogeneità narrativa e nondimeno l’altissimo valore esecutivo, avrebbero consacrato l’opera dei Moodies ad apertore del genere progressivo.

Infelicemente, la Deram-Decca prestò tanta attenzione al progetto originale quanta distrazione nel conservare le matrici originali su nastro. Alchè, molte delle ristampe del disco che si susseguirono ininterrottamente a partire dalla prima reissue 1978, tradirono in molte parti la prima stesura che oggi è diventata assai rara da reperire su vinile in buone condizioni.

moody bluesCiononostante, anche ascoltando il nuovo mixdown, è davvero impossibile non cogliere la straordinaria fluidità dell’opera che inizia con l’orchestrale “The day begins” e termina con lo strepitoso successo di “Nights in white satin” che verrà ripresa da mezzo mondo, inclusi i nostri Profeti, Gatti Rossi, Bit-Nik e soprattutto dai Nomadi che la ribattezzarono “Ho difeso il mio amore”.

La liquidità del continuum musicale e narrativo non lascia dubbi sul fatto che un nuovo genere musicale sia alle porte e non ci vorrà molto perchè tutta una serie di musicisti sensibili alla musica classica e sino ad allora confinati nei conservatori o nelle scuole d’arte, colgano al volo l’occasione per reinventarsi essi stessi con delle nuove proposte stilistiche: dai primi Nice di “The Thoughts of Emerlist Davjack” (1967) sino alllo storico "In the court of the crimson king" (1969) dei King Crimson passando per i Caravan, i Colsseum e i Soft Machine.

Chi attribuisce la paternità del prog a “Freak Out” di Zappa (1966) deve rapidamente ricredersi per l’ovvio distinguo che intercorre tra l’opera di un genio isolato e un vero e proprio movimento che a partire dalle note dei Moody Blues coinvolgerà il mondo intero.

23 commenti :

regolo ha detto...

D'accordo, il disco in questione è sicuramente un precursore di tutto il calderone progressive e a suo tempo sarà anche stato anche, in qualche modo, innovatore.
Però da qui a definirlo capolavoro ce ne passa. I capolavori resistono nel tempo mentre questo disco, ascoltato con le orecchie odierne, risulta un polpettone di difficile digeribilità.
Parere personale eh :-)

J.J. JOHN ha detto...

Regolo, ho visto la toa osservazione su Outlook, ma noto che non è stata pubblicata da Blogger.
Non so perchè, cmq ogni tanto capita.
Ho corretto comunque la terminologia in maniera più realistica. Grazie.

rael ha detto...

aspettavo qualcosa sui Moody Blues! una delle poche band che amavano la melodia perfetta.

Daniel ha detto...

Ottimo disco. Nights In White Satin e Tuesday Afternoon in particolare sono dei veri classici del rock sinfonico e del rock in generale.
L'influenza di questo disco fu immensa e immediata, anche in artisti non sospetti. Secondo me infatti ne risentirono anche gli arrangiamenti barocchi di Tutti Morimmo A Stento, pubblicato appena un anno dopo il disco dei Moody, qui in Italia.
Notare anche come, mentre in Inghilterra si cominciava a spingere il rock verso il fronte della musica colta, in America nello stesso anno c'era chi faceva esattamente l'opposto e usciva un altro capolavoro come The Velvet Underground & Nico. Un periodo così fecondo e creativo è difficile anche solo da immaginare oggi.

J.J. JOHN ha detto...

Già, ma di fatto anche i Velvet erano a loro modo "colti", perlomeno dal punto di vista teorico e rappresentativo. Dietro di loro c'era comunque il genio della Pop Art.

L'america aveva dunque a ovest la Summer of Love, il movimento di San Francisco, la West Coast e i nuovi Beatnik.
A est l'intellettualismo di New York e poco più in là, il nascente movimento di Detroit.

Capisci quindi che per l'Inghilterra perdere i Beatles avrebbe potuto rappresentare un autentico dramma e, a mio avviso, il progressivo fu la risposta anticipata a chi pensava che l'Europa potesse soccombere da un momento all'altro dopo l'onda di Liverpool.

In quel senso, e qui me ne vanto, gli inglesi furono come al solito geniali.

aliante ha detto...

Ciao John. Complimenti per questa tua nuova rubrica. Tra l'altro hai iniziato con un album e con un periodo che io amo molto, ossia la scena British psichedelica pre Prog del 67/68. L'album dei Moody Blues è molto bello e innovativo anche se il mio preferito è On a threshold of a dream del 69 (se non sbaglio è assai amato anche da Franco Mussida della PFM). Ciao e ancora tanti complimenti.

JJ John ha detto...

Grazie Aliante.
Ecco, faccio una puntualizzazione che però rimetto interamente al vostro giudizio.
Se vorrete darmelo.

La rubrica è nuova e sarà molto impegnativa perchè parleremo con un taglio particolare di monoliti sui quali è stato già scritto tutto di tutto.
Però cercheremo di dare loro una visuale nuova, per non dire inedita.

Ora, il discorso è questo.
Io cercherei di procedere per date.
Ossia considerando prima quei dischi che anche se immaturi (come mi fai notare tu nel caso di Moodies, e sono d'accordo) rappresentano comunque le prime fondamenta del prog.
Analizzare insomma la radice prima della fioritura, non so se mi spiego.
Poi, semmai passare al resto.

In questo senso, certamente "Valentine Suite" dei Colosseum fu un lavoro più compiuto di "Rondò" dei Nice, ma io credo che senza le intuizioni di Emerson e soci difficilmente i Colosseum avrebbero partorito il loro capolavoro in quei termini e in quei tempi.

Affronterei dunque la storia per gradi.
Ditemi se siete d'accordo e, naturalmente, ogni consiglio è bene accetto.
Mi sto muovendo su un terreno minato, ma ho deciso di farlo con tutta la consapevolezza possibile.

Grazie sin da ora per le vostre dritte.


John

Daniel ha detto...

Hai ragione JJ, la semplicità dei Velvet era solo formale. Penso non solo al burattinaio Warhol, ma anche agli studi avanguardistici di John Cale.
Che il prog fosse nato anche sulla base di una paura di perdere i Beatles non ci avevo mai pensato... interessante ipotesi! E sì, te lo concedo, gli Inglesi musicalmente sono stati parecchio geniali, particolarmente in quegli anni.
Il metodo che proponi per questa nuova rubrica mi sembra valido, quindi te lo appoggio in pieno e, mentre leggo qualche nome qui (http://classikrock.blogspot.com/2007/06/breve-storia-del-prog.html)... mi viene l'acquolina!

regolo ha detto...

Anche per me il metodo che proponi va bene.
Continua pure così JJ.

Regolo - JJ John ha detto...

Anche per me il metodo che proponi va bene.
Continua pure così JJ.

Regolo scusa ma sai che i tuoi comments continuano a non essere pubblicati (questo l'ho copiato io da Outlook).
Idem per quelli di Silvie.
Ma che cavolo succede secondo voi?

regolo ha detto...

Boh! Non ne ho la minima idea.
Potrebbe essere che scrivendo dal lavoro ci sia un filtro sul proxy?
Il prossimo commento lo scrivo da casa per vedere se viene pubblicato.
Ciao

Anonimo ha detto...

Quando penso indiertro sul prog
è proprio questo disco che mi viene subito in testa complimente per la consapevolezza di dare aprire il tuo blog per la storia del prog in un contesto piú generale, penso che non mancará in futuro come importante anche Pawn Hearts. Sbaglio ?

JJ John ha detto...

Non so. Devo studiare ancora un po'.
Adesso dobbiamo procedere per gradi: ci sono delle sorprese ancora più belle.
Abbraccio amico anonimo. John.

Jellyfish ha detto...

disco meraviglioso. Sbaglio, o il 67 è stato un anno esplosivo per il rock? Cito a memoria: il sergente Pepe, il pifferaio ai cancelli dell'aurora, l'esordio di Hendrix e Doors, Velvet Underground & Nico, tanto per dire, e scusate se è poco. L'odore dell'erba ti ha indotto a sognare? Ascolta, tutto il disco profuma di erbe aromatiche, spezie, e quanto altro. Il rock è musica che induce a tentazioni. Questo disco è meraviglioso, e non si discute. Ma chi non ha provato a gustarlo, mentre una striscia di luce appare all'orizzonte dopo una notte di stordimento, non sa cosa si è perso.

taz ha detto...

Certi dischi sono importanti più per quello che avrebbero detto in futuro che per le cose dette sul momento...questo è il mio parere su questo disco...io sono affascinato da "To Our children's..." disco fantastico per me...Cmq reputo i MB i veri "primi" in questo genere di fusione rock-classica...bella road intrapresa da JJ...ciao

Unknown ha detto...

"Chi attribuisce la paternità del prog a “Freak Out” di Zappa (1966)"?!? e chi lì'avrebbe detto?
e cosa ci incastra un capolavoro simile con il prog made in UK?
ASSOLUTAMENTE NIENTE

J.J. JOHN ha detto...

Lo dice per esempio William Ruhlmann, biografo di Zappa o il prestigioso sito Progarchives dove si legge che Freak Out "is a masterpiece of the sunrise of progressive music" e comunque anch'io ho spesso sentito in giro questa ipotesi.

L'attinenza col prog inglese si inserisce nella diatriba anglo-americana su quale sia stato il "primo album di progressive" e in questo senso occorre ammettere che "Freak Out" conteneva realmente elementi prog: è un album concept (il secondo della storia del rock), si avvale di arrangiamenti orchestrali e si appoggia su basi poliritmiche e multistiistiche.

A mio avviso però "Freak out" fu un album molto più avanguardistico che non progressivo e questo perchè Zappa si è sempre riferito al post-romanticismo (Varese, Shoenberg, Messiaen ecc.)piuttosto che al barocco, al neoclassico o al romanticismo che invece erano propri del prog.
Certo è che la linea di demarcazione analitica è molto sottile e certamente può trarre in inganno.

Infine mi ripeto, "Freak Out" mi sembra molto più il prodotto di un genio isolato che non il motore di un movimento.
Specie se esportato in una nazione che, come l'Inghilterra, aveva già abbondante materiale innovativo su cui lavorare.

Carlo ha detto...

Volevo fare presente a Simon House che nel 2010 la rivista "Classic Rock Magazine" citò Freak Out come il primo album a costruire la storia del prog.
Questo è il link:

http://www.progarchives.com/forum/forum_posts.asp?TID=70597&title=classic-rock-magazines-50-prog-albums

Io credo che Jj non si meriti le tue URLA e comunque, anche quando dice qualcosa su cui non siamo d'accordo se ne può sempre parlare.

Carlo

Silver ha detto...

Mi si permetta di dire però che la parabola creativa dei Beatles non si è mai affatto esaurita.
Nell'arco di quei due anni il gruppo si è semplicemente sgretolato, ma i tre membri "componenti" non hanno di certo perso creatività.

J.J. JOHN ha detto...

Naturalmente Drew.
In effetti il timore dei discografici era più sulla "compattezza" del gruppo che non sul genio dei singoli elementi.

Anonimo ha detto...

Senza alcun dubbio un grandissimo disco, ma secondo me ancora lontano dal progressive tout court. Siamo ancora in ambito Baroque pop/Psichedelia. Comunque, un precursore, assieme anche a SF Sorrow dei Pretty Things.

MarioCX ha detto...

Adoro i Moodies proprio per il loro essere ancora con una zampa nella psichedelia flower power.
Questo è un disco che contiene certo una gemma luminossisima "Tuesday afternoon" e altri episodi notevoli tra i quali la stranota "Nights eccetera", ma non è cero il loro disco migliore.
Imperdibili, a mio avviso, i succesivi tre ovvero "In search of lost chord", "On a threshold of a dream" e "To our children's children's children".
Poi anche il resto almeno fino a "Long distance voyager" (1981) è più che godibile.

Anonimo ha detto...

Disco fondamentale !

Michele D'Alvano