Lucio Battisti: Images (1977)
Premessa. Gli italiani e l'inglese.

LUCIO BATTISTI IMAGES 1977
L’Italia - come sappiamo - ha sempre avuto un'attrazione speciale per l'America. Per effetto di quel Piano Marshall che le permise di rialzarsi dopo la seconda guerra mondiale, per quel suo mercato sempre debordante di dollari e di opportunità, ma anche per la straordinaria seduttività dei suoi miti. Sia quelli innocui, che quelli che cambiarono il mondo. 

Questo interesse, dicevo, iniziò nel 1945, subito dopo la liberazione, quando conoscemmo i chewing gum, le Camel e la Coca Cola, proseguì lungo gli anni Cinquanta con l'arrivo del Rock'n'Roll, e si consolidò negli anni Sessanta con il contributo decisivo della british invasion e della swinging London

Erano tempi in cui atteggiarsi ad angloamericano faceva figo, piazzare una hit negli States o in Inghilterra significava entrare nella leggenda, e anche se qualche superstar d'oltremanica si cimentò con la nostra lingua (ricordiamo Stevie Wonder, David Bowie e Sandy Shaw), il trend rimase sempre a senso unico. Eravamo sempre noi a imitare gli inglesi, mai viceversa. E del resto, con un patrimonio conflittuale ridotto al minimo e abbarbicati come cozze al melodico ottocentesco, cos'altro avremmo potuto fare? Nulla. 

Ci convincemmo così che l'inglese poteva davvero nobilitarci, tentammo in tutti i modi di dimostrarlo e infatti, almeno la metà del nostro beat fu composta da brani tradotti. Alcuni bellissimi come Ragazzo di Strada dei Corvi, o Per vivere insieme dei Quelli (rispettivamente I Ain't No Miracle Worker dei Brogues, e Happy Together dei Turtles), altri meno come Corri Uomo, Corri, dei Giganti, versione italiana di Space Oddity

DEMETRIO STRATOS DADDY'S DREAM
Malgrado gli obbrobri però, i successi prevalsero.

Economicamente, italianizzare le canzoni rendeva e conveniva, a volte gli ascoltatori non si rendevano nemmeno conto che certi brani fossero delle cover, e il fenomeno proseguì anche nel decennio del grande rock, del pop e del cantautorato. Gli anni Settanta.

E se nessuno pensò mai di tradurre Whole Lotta Love, Smoke on the Water o The Musical Box, il virus albio-americano contagiò nuovamente tutti i protagonisti del nostro panorama musicale. Ma qui cominciarono i problemi. 

Perché, se negli Sessanta l'Italia era ancora molto ingenua in fatto di lingue straniere, per cui molte imperfezioni passavano in secondo piano, la proliferazione delle radio indipendenti, la massiccia diffusione delle hit d'oltreoceano e d'oltremanica, e a una maggiore attenzione del pubblico per certi dettagli (testi, immagine, contenuti, slang, pronuncia ecc), resero i nostri limiti tragicamente evidenti. 

E non parlo di artisti quali Stratos, Finardi, Tofani, Branduardi, Sorrenti, De Scalzi o Lanzetti che l'inglese lo sapevano e  lo parlavano alla perfezione, ma di coloro che vollero cimentarsi per moda o per forza con una lingua che proprio non faceva per loro. 

Per esempio, il Rovescio della Medaglia, il cui album Contamination fu – credo - tra i punti più bassi delle nostre produzioni in lingua (al punto che molte parti corali, diciamo così, un po’ "borgatare" vennero stemperate da tonnellate di riverbero), Il Balletto di Bronzo, la cui versione albionica di YS lasciò molto a desiderare, e gli Osanna i cui tre brani in inglese del loro primo album accusavano una sintassi molto migliorabile

EDOARDO BENNATO ROCK N ROLL HEROE infine, i miei amici Alluminogeni la cui Cry for me (= L'alba di Bremit) fu giustamente ritenuta dalla stampa specializzata, "a pitiful exercise". Mi riprometto di chiedere dettagli al mio amico Patrizio.

Tra i cantautori / solisti invece, ci fu Edoardo Bennato, che rilesse in anglo-partenopeo l’originale e stupenda Cantautore, Ivano Fossati che con un flow un po' cementato cantò le sue  Where Is Paradise e Harvest Moon da Indiana Goodbye, e davvero devastanti sia la pronuncia che i testi di Foetus, versione inglese del primo album di Battiato

E se quelli che ho ascoltato personalmente erano veramente dei provini di De Andre’ in salsa albionica, allora è davvero meglio che siano rimasti inediti. 

Negli anni Settanta però, tutti i riflettori erano puntati su Lucio Battisti, al punto che qualunque cosa dicesse, facesse o cantasse, sollevava un polverone mediatico senza precedenti. 

E questo accadde anche con Images, il suo primo e unico album in inglese. Un disco che ebbe una gestazione difficile, che gli procurò dolori che gioie, e che (forse) sarebbe stato meglio abortire in tempo. 

A risentirci nella seconda parte.

Nessun commento :