Banco: Io sono nato libero (1973)

banco io sono nato libero

Nel mondo del Rock capita spesso che dopo aver pubblicato un capolavoro, molti musicisti vi rimangano arroccati senza più riuscire a superarsi, a crescere o più banalmente a modificare il proprio impianto stilistico per trovare nuove soluzioni.


Eppure, il Banco del Mutuo Soccorso non ebbe questi problemi: raccolse gli stimoli di un mondo giovanile in cambiamento, fece proprie le nuove pulsioni sociali e politiche, superò quelli che erano ritenuti da molti critici i loro limiti (es: verbosità e frammentazione), trovò un concetto forte da sviluppare ("la libertà"), ne eviscerò tutti gli aspetti e dopo un lungo lavoro di selezione del materiale prodotto, diede alle stampe nel 1973 il suo terzo album "Io sono nato libero": un lavoro eccellente che si contende con "Darwin" il titolo di miglior disco della band e forse, di tutto il progressivo italiano.


E' naturale a questo punto che non ci dovremmo esimere dal fare dei paragoni tra queste due pietre miliari della nostra musica ma, nella realtà, "Io sono nato libero" andrebbe inteso non come l'antagonista di Darwin, ma come il suo superamento e per questo motivo, da ritenersi un'opera a se stante.

Di fatto, nel nuovo lavoro vengono oltrepassate tutte le barriere che avevano limitato l'album precedente.


banco io sono nato libero 02Innanzitutto, viene sconfitta la "forma collage" tipica dei primi "concept", a vantaggio di una maggiore completezza dei singoli brani il cui svolgimento viene ora restituito non più in forma romanzata (ossia con un inizio ed una fine) ma maniera puntuale, cioè eviscerando e completando in ognuno di essi i diversi aspetti del tema portante.


Il risultato non è più quindi un "racconto", ma una "costruzione", intesa come un solido insieme strutturale delle molteplici componenti che la vanno a formare.

In questo senso, ciascuna delle canzoni ci rimanda a tutti gli aspetti del concetto di "libertà": quella negata da un certo tipo di politica in "Canto nomade per un prigioniero politico", oppure quella che viene spesso limitata e agognata all'interno di un sistema socio-produttivo metropolitano ("La città sottile") e infine quella preclusa a chi è coinvolto suo malgrado in un conflitto ("Dopo… niente è più lo stesso").


C'è anche e persino la libertà sognata ed immaginaria: quella di "Non mi rompete", vero e proprio cavallo di battaglia del gruppo e punto altissimo della musica Italiana di ogni tempo.

Qui, la sua evocazione richiama simultaneamente aneliti, voglia cieca, poesia e introspezione.

Il soggetto della canzone (la libertà, il diritto al "se") non viene citato direttamente, ma esplode liricamente nella forza di un desiderio che assurge così a diritto imprescindibile per chiunque.


banco io sono nato libero 03Questo è un momento di sublime poetica che richiama il secondo punto di forza dell'album: in "Io sono nato libero" infatti, le liriche viaggiano su una strada nuova, dritta e priva di quei pur piccoli e forzati intoppi che appartennero al suo predecessore: il perfetto equilibrio tra il pregresso linguaggio aulico e una forma letterale diretta è pienamente conquistato, pur senza mai rinunciare alla poesia:


"Tu chi sei, città non città

che vivi appesa in giù alle tue corde d'aria ferma […].

I tuoi mille ascensori di carta velina […]

Sottile non città che reggi tutto su niente".


E infine, la musica.

Anche in questo caso i rigidi valichi delle strutture concettuali vengono glissati con classe e maturità. Non una sola nota sembra suonata per caso giacchè il gruppo ha completamente introiettato la sua dimensione stilistica.


Da una lato c'è la voce di Di Giacomo che ormai è più ferma e sicura che mai, dall'altro una band di sei elementi (nel frattempo si è aggiunto il chitarrista Rodolfo Maltese) che si è perfettamente adattata al suo granitico ruolo strumentale e compositivo in cui spiccano nuove le nobili pennellate armoniche del giovane Gianni Nocenzi.


banco io sono nato libero 04Il Banco insomma veleggia ormai ad un livello internazionale che non è possibile confutare: certi breaks non hanno nulla da invidiare ai Gentle Giant e i testi sono a livello della migliore poesia Italiana. La coscienza e la sensibilità politica vengono inoppugnabilmente dichiarate a mezzo di una comunicatività fresca e sino ad allora inesplorata.


"Io sono nato libero" è un capolavoro assoluto.

Impossibile, ma davvero impossibile, pretendere di più.


IO SONO NATO LIBERO E' STATO GIUDICATO DAI LETTORI DI

CLASSIC ROCK L'ALBUM NUMERO UNO DELL'ANNO 1973



BANCO DELMUTUO SOCCORSO - Discografia 1972 - 1978:
1972: BANCO DELMUTUO SOCCORSO
1972: DARWIN
1973: IO SONO NATO LIBERO
1975: BANCO (english)
1976: GAROFANO ROSSO
1976: COME IN UN'ULTIMA CENA
1978: DI TERRA

Area: Are(A)zione (1975)

area arazione 1975Il 1975 rappresentò uno spartiacque nella carriera degli Area, dividendola stilisticamente in due fasi distinte.
La prima fu quella più agguerrita e fortemente influenzata dalla violenza urbana (1973/74).
L
a seconda, quella più distesa e intimista, inaugurata proprio nella primavera del ‘75 con la pubblicazione di “Crac”.

Crac” infatti, non solo aveva perfettamente, fotografato - come di consueto - il suo periodo storico, ma preluse chiaramente (es. con “Area 5”) a quella svolta stilistica che si sarebbe effettivamente concretata l’anno successivo con “Maledetti”.

A coronamento di quel "momento di transizione" dunque, non rimase che fare il punto della situazione con un prodotto fortemente simbolico che celebrasse i primi tre anni di attività della band, proponendola nella sua dimensione più popolare e coinvolgente: quella dal vivo.

Uscì così Are(A)zione, che rappresentò non solo un compendio live dei brani più significativi del gruppo, ma certificò definitivamente che gli Area erano soprattutto una straordinaria forza dialettica e comunicativa, capace di stimolare il pubblico e di abbattere con la forza dell’interazione, qualsiasi barriera tra musicista e spettatore.

Riascoltando il disco ai giorni nostri, è difficile cogliere a fondo quello sforzo comunicativo, ma certo è che tutti coloro che videro la band in concerto, rimpiangono ancora oggi quel profondo senso di biunivocità che si veniva a creare tra la platea e il palcoscenico.

Gli Area erano in grado di trasformare il disinteresse in coinvolgimento, la diffidenza in dialogo, la musica in passione, al punto di non programmare mai i loro happenings, ma di variarli di volta in volta a seconda della reazione degli astanti.
Una cosa oggi assolutamente impensabile.

Area Area(A)zioneTutti i brani della scaletta venivano di norma stravolti, contaminati, accelerati, spezzati o riadattati a seconda dei casi e, non era raro, che molte esibizioni prendessero alla fine una piega completamente diversa da quella prevista inizialmente.
Casi emblematici furono lo sventolamento degli ombrelli durante l'esecuzione di “Caos” all’Università Statale nel 1976 o i “cavi scoperti” del Parco Lambro ’75 o ancora, il celebre “offertorio delle mele” durante la “Mela di Odessa”.

Caso limite fu quello in cui, a fronte della freddezza degli spettatori durante un concerto a Sanremo, Demetrio Stratos cominciò a lavarsi i piedi in una bacinella d’acqua, Capiozzo e Tavolazzi si misero a piantare dei chiodi sul palco, mentre Tofani e Fariselli lo lavavano con uno straccio.
Insomma, con gli Area erano dei veri situazionisti.
Con loro, la destrutturazione diventava spettacolo: un po’ come quando Jannacci cominciava i suoi concerti stando zitto per dieci minuti.

Tecnicamente, Are(A)zione fu un album molto sofferto, malgrado alla fine risultò uno dei migliori prodotti live degli anni ’70.

la mela di odessaRegistrato in presa diretta su un Revox a due piste installato su un furgoncino esterno allo stage (in certi casi anche con l’aiuto dei mezzi della Pfm), il vinile catturò sostanzialmente quattro apparizioni: quella del Parco Lambro a Milano, della Festa de l’Unità di Napoli, del Festival della Gioventù di Rimini e del Teatro Comunale di Reggio Emilia.
La scelta dei brani venne affidata a Tofani che, in sede di mastering, aggiunse solo qualche minima coloritura tecnica.

Per il resto, tutto ciò che si sente, sono gli Area al 100%: le lunghe spiegazioni introduttive di Stratos, la straordinaria perfezione esecutiva, i breaks provocatori (la famosa sgranocchiata della “mela”), la consumata capacità d’improvvisazione e soprattutto, la struggente tensione emotiva che raggiunse il suo apice nell’epocale versione de “L’Internazionale”.

In sintesi, Are(A)zione non fu solo un “disco live” ma lo specchio di un’epoca: un documento imprescindibile degli anni settanta la cui essenza non cesserà mai di stupire e di coinvolgere.

Spero per tutti Voi che riascoltandone l’energia e introiettando il calore e la sincera progettualità di quel
le note, Vi venga voglia di creare e disobbedire, di “non delegare mai niente a nessuno" e spingervi sempre e comunque verso nuove immaginazioni.
Perchè questo, è quello che ci insegnarono gli Area.


AREA - Discografia 1973 - 1978:
1973: ARBEIT MACHT FREI
1974: CAUTION
1975: CRAC
1975: ARE(A)ZIONE
1976: MALEDETTI
1978: GLI DEI SE NE VANNO, GLI ARRABBIATI RESTANO

Capitolo Sei: Frutti per Kagua (1972)

capitolo sei frutti per kagua 01NEI COMMENTS: INTERVENTO DI MAURO ROMANI,
BASSISTA DEI CAPITOLO 6 E DI MIRKO TESSANDORI


Sulla storia di questo gruppo si è creata col tempo molta confusione. La scheda che segue tenta di ricostruirne più verosimilmente possibile la storia tenendo conto delle testimonianze più recenti.


I Capitolo Sei si formano nel 1969 dalla fusione tra i livornesi " I Rangers" e i viareggini "Gli Eremiti".
Il quintetto originale a due batteristi consisteva in Riccardo Bartolotti (voce, chitarra, flauto), Jimmy Santerini (tastiere, voce), Giovanni Galli (basso, batteria) subito rimpiazzato da Mauro Romani (basso), Lorenzo Donati (batteria, voce) e Luciano Casa (chitarra, batteria).
E' pertanto da mettere in dubbio il fatto che il gruppo fosse di Roma come viene spesso riportato.
Inoltre, secondo diverse voci tra cui quella autorevolissima di Paolo Barotto, il gruppo pubblicò praticamente appena nato un singolo per la Atco ("Cool Jerk", "Please, Please, Please", entrambe covers dei Capitols) ma anche questa notizia è opinabile al punto che verrà seccamente smentita da uno dei componenti del gruppo (fonte www.italianprog.it).

A Roma, la band viene messa sotto contratto dall'etichetta IT (la sussidiaria della RCA diretta da Vincenzo Micocci) grazie all'intercessione dell'amico e produttore viareggino Franco Tessandori e pubblica nel 1971 il suo primo vero singolo "Mi innamoro di te".
Parallelamente, si fa notare sia al Festival Pop di Viareggio del 1971, sia come opening act del concerto romano dei Led Zeppelin. Dello stesso periodo si segnala anche un'apparizione su Tele Capodistria in cui però mancano Romani e Casa, quest'ultimo sostutuito da un non meglio identificato chitarrista di nome Roberto.
Nel 1972 la formazione si riduce a quartetto con l'uscita di Santerini e restano della partita Bortolotti, Romani, Donati e Favilla che, sempre a nome di Capitolo Sei, pubblicano in marzo il loro primo e unico album: "Frutti per Kagua", un album concept sulla vita dei pellerossa americani.
Il disco presenta due facciate piuttosto diverse tra loro, ma omogeneizzate da un sound duro, spigoloso e per ampi tratti autenticamente "progressive" (es: "Il tramonto di un popolo").
Il lato A è interamente occupato dalla lunga sinfonia "Frutti per Kagua" i cui 18 minuti sono idealmente divisibili i tre movimenti.

capitolo sei frutti per kagua 02Il primo è sostanzialmente hard rock con molte concessioni al Prog specie nei breaks tra una strofa e l'altra, in cui spiccano l'aggressiva voce del cantante e i lodevoli passaggi ritmici di Donati e Romani, ben contrappuntati dal flauto e dal sax.
I successivi 9 minuti regalano atmosfere più rilassate sulla falsariga dei King Crimson, ma con un pizzico di mediterraneità in più nel gradevole crescendo ritmico che conduce alla sezione finale.
La coda del brano infine, riprende l'introduzione seguendo un classico schema mutuato dalla musica classica e dal Jazz.

Il lato B presenta invece tre brani più corti e strutturati in forma-canzone senza però concedere nulla alla melodia tradizionale:
"Grande Spirito", "Il tramonto di un popolo" e "L'ultima notte" sono sostanzialmente delle mini-suites progressive dall'impatto complesso, articolato e soprattutto molto affascinanti dal punto di vista esecutivo.
Nobilitati dagli splendidi testi del giovane Francesco De Gregori e di Edoardo de Angelis (quindi non Guido e non Maurizio De Angelis che non c'entrano nulla), tutti i pezzi della seconda facciata consistono in continuo accavallarsi di poliritmie, stacchi, contrappunti e di interventi vocali che sorprendono per grinta e modernità.

capitolo sei frutti per kagua 03Purtroppo, il fatto di essere così avanti coi tempi non aiutò il Capitolo Sei i cui prodotti a 33 e 45 giri, non diedero alcun riscontro economico.
Dopo un'ultima apparizione nella compilation "Sanremo 1972" con una cover di "Jesahel" dei Delirium e il brano pop "Ti Voglio"
(sempre con arrangiamenti di Franco "Terry" Tessandori), i quattro si dividono e il solo Favilla andrà a rimpolpare per qualche tempo le fila dei Campo di Marte.

Dotato di una splendida veste grafica (copertina apribile con tanto di risvolto per essere appesa al muro), a questo Ellepì può essere solo imputata una certa ridondanza negli stacchi ritmici ed armonici che, da una parte, sanciscono effettivamente il pregio dell'album, ma dall'altra, risultano leggermente eccessivi e forzati.
In ogni caso, al di là di queste minuzie critiche e del suo immeritato oblìo, "Frutti per Kagua" è un disco che deve assolutamente comparire in qualunque discoteca Prog che si rispetti.

Osanna: Suddance (1978)

osanna suddanceCome si cambia per non morire”, diceva il poeta.
Ed è proprio ascoltando l’ultimo lavoro degli Osanna datato 1978, che mi venivano in mente esattamente quelle parole scritte nel 1987 da Enrico Ruggeri per la Mannoia.

Si perchè nella maggior parte dei brani di “Suddance”, io personalmente gli Osanna non li riconoscevo più: o meglio, erano un altro gruppo non solo rispetto a quello che incise il glorioso Palepoli nel 1973, ma persino il tormentato Landscape of Life l’anno successivo.

Invano ho cercato si scorgervi l’eredità dello spregiudicato sax di Elio D’Anna, ma lui aveva già da tempo dato forfait per formare gli Uno.
Chissà mai che allora non ci si potesse trovare qualcosa di quell’impeto rivoluzionario che fu dei Città Frontale di Vairetti e Guarino o almeno la forza della loro storica teatralità, ma niente.
Tutto inutile.

Nel 1978 gli Osanna erano completamente cambiati esattamente com’era cambiato quel sistema alternativo da cui avevano tratto la loro miglior linfa vitale.
Dopo il 1976 la controcultura si era dissolta e dalle sue ceneri erano nate altre disobbedienze ma più pragmatiche e irriverenti. Il movimento non esisteva più, così come non c’erano più i Festival Pop la cui assenza, aveva privato il 90% dei gruppi prog del loro unico canale di interazione con le masse meglio disposte a quel genere di musica.
L’onda lunga del Punk aveva invaso anche il nostro paese e larghi segnali di riflusso ci avvisavano che ormai gli anni ’80 erano alle porte.

osannaGli Osanna, dal canto loro, si erano già smembrati da ben quattro anni per dar vita a vari progetti alternativi, ma visto che anche quelle strade erano ormai desuete alle orecchie della maggior parte del pubblico, alcuni di loro si riunirono nel 1977 per vedere quanto ancora di buono si potesse fare, ma nulla era come prima.
Come astronauti ritornati dopo un secolo sulla terra dovettero adeguarsi all’incedere dei tempi e delle nuove mode.

Naturalmente, la storica discografica Fonit era ormai completamente disinteressata al progressivo ma comunque, viste le conoscenze internazionali del gruppo, non fu difficile farsi accettare presso l’americana CBS per pubblicare ancora un album tutti insieme: operazione resa ancora più agevole dal fatto che in “Suddance” di progressive non ce n’era praticamente più.

Ed ecco allora che malgrado eccellenti collaborazioni del calibro di Benny Caiazzo al Sax, Antonio Spagnolo al violino elettrico, il tastierista Fabrizio D’Angelo e l’ex bassista dei Volti di Pietra Enzo Petrone, il disco prese la sua forma definitiva, ma ne uscì fuori un prodotto stranamente ibrido e apolide, sospeso tra frammenti di una vitalità ormai lontanissima (“Ce vulesse”) e strizzate d’occhio all’imminente nuovo decennio (“Chiuso qui”).

A rimarcare poi la lontananza da “Palepoli” fecero da contraltare una produzione perfetta e dei suoni levigatissimi degni della più grande multinazionale americana che però, a conti fatti, restituirono un gruppo che si rivelò una sorta di fantasma la cui sola consumata abilità esecutiva certificò l'esistenza di un luminoso passato.

suddance osannaIn “Suddance” infatti, tutto ciò che vorrebbe essere ancora autenticamente napoletano (es: “O Napulitano”) viene stemperato da un sound newyorkese che ben poco a che vedere col Vomero o con i Quartieri Spagnoli.
La rabbia collettiva che fu di “fuje a chisto paese” è ora implosa nella solitaria figura di una zingara che viene respinta dalla società.
La conclusiva “Naples in the world” ha ben poco di Napoli se non la probabile residenza degli esecutori.

In sostanza, diciamo che l’insuccesso di “Suddance” che poi portò allo scioglimento definitivo della band, fu in parte prevedibile.
Tuttavia, visto in una prospettiva storica, l'album avrebbe forse meritato qualcosina in più, non fosse altro che alla fin dei conti, la band accettò l’impossibilità di tornare indietro, guardandosi al futuro nel più onesto e professionale dei modi.

Se ne renderà presto conto ad esempio, il giovane Pino Daniele che di questo album e di Napoli Centrale sembrò essere il legittimo primogenito, ma non solo: occorre comunque dare atto agli Osanna che, pur rinunciando a malincuore al Prog, decisero di lasciare le scene con un’impronta meno profonda, ma sicuramente aderente alle trasformazioni del loro tempo storico.
Il futuro poi appiattì qualunque spirito antagonista, ma questo gli Osanna non potevano prevederlo. O forse, non vollero crederci nemmeno loro.


OSANNA - Discografia 1971 - 1978:
1971: L'UOMO
1972: PRELUDIO, TEMA, VARIAZIONI E CANZONA
1973: PALEPOLI
1974: LANDSCAPE OF LIFE
1978: SUDDANCE

Samadhi: Samadhi (1974)

samadhi 1974Al principio del 1973, la Raccomandata con Ricevuta di Ritorno attraversa una crisi irreversibile: la coppia Regoli - Civitenga, sempre più portata verso il rock sinfonico, si scontra senza possibilità di risoluzione con il resto del gruppo orientato invece verso il Jazz e se ne va.

E' da questa defezione che nasce il gruppo dei Samadhi, ovvero "pace interiore" o anche "il livello più alto di uno stato meditativo" e che almeno sulla carta dovrebbe essere lanciato come un autentico "supergruppo".

Infatti, all'interno della band confluirono insieme ai due RRR, l'ex tastierista dei Free Love Stefano Sabatini, l'ex bassista dei Punto e dei Teoremi Aldo Bellanova , il percussionista Ruggero Stefani (già con gli "Uovo di Colombo") e l'ex Corvi, Sandro Conti.
Una formazione dunque di tutto rispetto che impiegò circa 40 giorni per registrare il suo unico album omonimo, ma che sciaguratamente non solo non ebbe alcuna promozione, ma venne anche aziendalmente snobbato essendo tutte le risorse della Fonit già impegnate nel lancio degli Uno, la nuova e importante diramazione degli Osanna.
Ciò volle innanzitutto dire che da un lato in pochi vennero a conoscenza del disco e dall’altro quasi nessuno lo acquistò o li vide mai dal vivo con ovvie ripercussioni sulla loro potenziale notorietà.
Un vero peccato perché è evidente che nel loro lavoro i sette musicisti ci misero talmente tanto di loro stessi da farlo risultare acusticamente perfetto soprattutto grazie agli arrangiamenti del fiatista slavo Stevo Saradzic.

Definito superficialmente "ai confini della west Coast", il disco è più verosimilmente un'azzeccata miscellanea di stili e di invenzioni timbriche: jazz, rock, prog, pop e Canterbury, con una forte influenza underground evidenziata soprattutto da alcune digressioni a carattere religioso (“L’Angelo” e “L’ultima spiaggia”)

samadhi progressive rock Suonato e arrangiato con maestria non comune, l'ellepì comprende sette pezzi quasi tutti a firma Bellanova-Sabatini e imperniati sulla raccolta di poesie "Fiori di ieri, fiori di domani" del poeta-attore Enrico Lazzareschi.

Gli arrangiamenti sono ricchi e variegati, i cori eleganti ed accurati, le diverse ispirazioni stilistiche vengono mescolate nei brani con grande fluidità e i concetti esposti sono in fondo moderni anche se, dicevamo, venati da reiterate tracce di misticismo religioso.

La "pace interiore" agognata dal gruppo è comunque abbondantemente restituita da una miriade di tasselli armonici che si amalgamano perfettamente pur nella loro diversità e, rispetto alle indeterminazioni della RRR o le fiabesche digressioni dei colleghi Procession, i Samadhi appaiono molto più centrati sia come pulizia sonora che come concettualità.
La voce di Regoli appare qui rilassata e piena, le prorompenti tastiere di Sabbatini si allargano con competenza tra Jazz e Sinfonico, i fiati di Stevo Saradic contappuntano con classe ogni passaggio ricongiungendosi di volta in volta con il resto dell'incipit.

Perchè però un prodotto del genere non sia mai stato adeguatamente promosso, non ci è dato di saperlo: del resto, anche se la Font era occupata in progetti ben più rilevanti, si presume che da potenza qual’era avrebbe potuto anche distribuire più democraticamente le sue risorse, ma è evidente che non fu così.
Resteranno quindi gioielli nascosti le stupende alchimie spirituali de "L'Angelo" e le moderne atmosfere freak-jazzate di "Passaggio di Via Arpino": un brano modernissimo dedicato ad una strada, che anticipa almeno di due anni quella che sarà la poesia metropolitana dei Napoli Centrale in "Vico Primo Parise n°8".

samadhi regoli civitenga sabbatiniResteranno meno che un ricordo i contrappunti di "Un milione di anni fa" che spaziano dal tappeto barocco al jazz-rock dei ponti strumentali.
Avvolte dall'ovatta del tempo rimarranno anche le sapienti armonizzazioni di "Silenzio", tanto ricercate quanto efficaci e coinvolgenti.

Un vero peccato di cui però non si può dare alcuna colpa ai "Samadhi": loro ce l'hanno messa veramente tutta. E si sente.
I loro detrattori potranno accusarli di essere stati eccessivamente acustici o solo blandamente progressivi, ma non gli si potrà mai negare di aver catturato, almeno in parte, lo spirito di una società in cambiamento: forse troppo poco rispetto all'imperante politicizzazione della musica, ma abbastanza per fare di questo disco un lavoro veramente pregevole.

Noi non abbiamo voluto inventare l’acqua calda”, recitano candidamente le note di copertina, “abbiamo tentato di sottolineare sensazioni e vicende degli uomini, filtrandole attraverso la poesia e la musica, per coglierne la loro intima essenza. Sensazioni e vicende che, secondo noi, non sono sostanzialmente mutate attraverso i millenni.

Mauro Pagani: Mauro Pagani (1978)

mauro pagani 1978Sul perchè nel 1976 Mauro Pagani avesse lasciato la Pfm se ne scrissero di tutti i colori: “stanchezza dopo un periodo di iperattività”, “bisogno di vita privata”, “necessità di trovare una propria dimensione artistica” e anche “dissensi ideologici con i compagni”.

Sicuramente la verità stava nel mezzo e in ognuna delle ragioni che puntualmente facevano capolino sulla stampa, qualcosa di vero c’era: la stanchezza dopo le massacranti tournèes in Europa, Giappone e America, il bisogno di tranquillità emotiva e di nuovi impulsi che superassero quelli della Premiata e infine, qualche problema con i colleghi data probabilmente la forte politicizzazione del musicista di Chiari che in fondo, era rimasto l’unico elemento credibile della band agli occhi di un movimento in via di dissoluzione.


Dando una rapida occhiata al suo primo album solista del ’78 però, alcune delle motivazioni appena citate assumono una valenza superiore rispetto a quelle più "diplomatiche".

Per esempio, la “voglia aprirsi ad sound nuovo” fu completamente suffragata, oltre che dall’aspetto musicale di cui parleremo tra poco, dalla pletora di collaboratori di cui Pagani si avvalse per elaborare la sua nuova dimensione.
Il che probabilmente, stava a significare come per lui fosse stato praticamente impossibile far confluire le sue nuove idee all’interno della Pfm.

Di fatto, rispetto alle otto tracce del disco, l’elenco di ospiti dell’album è veramente ipressionante:
c’è tutta la Pfm eccetto Premoli. Il che vuol dire che le tanto sbandierate “divergenze” non furono poi così gravi se non quelle con il tastierista varesino che se ne stette lontano dal progetto.

mauro pagani 1978C’erano poi gli Area al gran completo, parte del Canzoniere del Lazio, Teresa De Sio, Roberto Colombo, il batterista Walter Calloni e l’oboista Mario Arcari che sarebbe presto diventato uno dei pupilli di Ivano Fossati. Ci si metta anche il chitarrista folk Luca Balbo e l’organico era completo.

Sorprendente fu anche l’impiego di ben quattro tecnici del suono tra i più quotati in Italia: Allan Goldberg (anch’egli futuro fedelissimo di Fossati), Carlo Martenet, Marco Inzadi e lo storico “meccanico del suono” della Cramps Piero Bravin.
In altre parole: un esercito di luminari della musica sotto le direttive del più importante polistrumentista italiano.


E infatti, fu proprio sotto l’aspetto musicale che meglio si concretò tutta la rinnovata creatività del Pagani, il quale però ebbe non solo la furbizia di non rinnegare i suoi trascorsi di musicista progressivo (“Europa minor”), ma di proporre qualcosa di molto simile al prog sotto tutta un’altra chiave di lettura.

Arrivano dunque in brillante mescolanza gli strumenti etnici, la musica cameristica, popolare, asiatica, sarda, mediorientale, quella fusion e il jazz rock. Il tutto in una sequenza talmente brillante, da far gridare al miracolo sia la critica nazionale che quella straniera.

Le citazioni tuttavia sono dietro l'angolo e l’iniziale “Europa Minor” sembra davvero un outtake de “Il bandito del Deserto” degli Area miscelato con “Arbeit macht frei”. Eppure se in altri frangenti qualcuno avrebbe potuto gridare allo scandalo, qui si trattava di un’operazione completamente diversa: Pagani cioè, voleva offrire il suo biglietto da visita citando allo stesso tempo la continuità con le sue radici e la sua voglia di rinnovamento.

mauro pagani premiata forneria marconiL’ombra degli Area di fatto scompare immediatamente già dal secondo brano “Argiento” in cui Teresa De Sio intesse ispirate vocalità su un tessuto di bozouki, mandolini e oboe.
Spezie
mediterranee che sembrano preludere a “Creuza de ma” fanno da protagoniste in “Violer d’amores” e un sofisticato “masala” di barocco, rock e fusion elettroacustica è invece l’azzeccato condimento della “Città aromatica”.
In “L’albero del canto” tornano gli Area con tanto di Demetrio Stratos in odore di “Luglio, agosto, settembre nero” e nelle successive “Choron” e “Il blu comincia davvero” viene nuovamente riconfermato l'equilibrio di quell'alternanza che si consuma nel finale con la gioiosa reprise dell’Albero del Canto.


Personalmente mi è difficile avallare la tesi di chi giudicò questo disco un capolavoro, non fosse che buona parte del suo incipit non sarebbe stato possibile senza l'eredità di gruppi quali Area, Pfm, CdL, Musicanova, ma anche Perigeo o Napoli Centrale.

Pagani però ebbe qui il supremo dono della sintesi: seppe traghettare con classe e senza arroganza uno stile musicale giunto alla fine (il prog) in un futuro nuovo che senza minimamente rinunciare alle proprie radici, propose ulteriori aperture verso altre contaminazioni.

Sicuramente lo capì Fabrizio De Andrè che dopo quattro anni con Bubola, due con la Pfm e due di silenzio, chiese a Mauro una mano per un album che avrebbe rivoluzionato la musica d’autore italiana. E così fu.
Il resto è storia d'oggi.

Tito Schipa Jr: Orfeo 9 (1973)

tito schipa jr orfeo 9Figlio del celebre tenore leccese Raffaele Attilio Amedeo Schipa detto “Tito” e dell’attrice Diana Prandi, Tito Luigi Giovanni Michelangelo Schipa, meglio noto come “Tito Schipa junior” nasce a Lisbona nel 1946.

La sua infanzia è piuttosto movimentata: trascorre un primo periodo negli States, poi ad Alessandria (Piemonte) e a nove anni si stabilisce definitivamente a Roma.
A vent'anni inizia a lavorare nel mondo dello spettacolo come assistente alla regia per due musicarelli di Lina Wertmuller e intanto, presenta le serate al mitico Piper Club, allora crocevia tra beats e borghesia progressista.

E sarà proprio al Piper che il 17 maggio del 1967 Tito Schipa Jr rappresenterà la sua prima opera beat intitolata “Then an alley”, portata in scena da un gruppo di attori e musicisti tra cui la cantante Penny Brown, il complesso resident del locale The Pipers e ottenuta assemblando tra loro 18 brani di Bob Dylan.

Esaurita questa prima esperienza, il nostro continua a lavorare a Cinecittà come assistente regista fino a che nel 1969, inizia a cimentarsi con la stesura di un’opera rock: “Orfeo 9” .
Pur non essendo il primo lavoro del genere su scala mondiale come vorrebbero alcuni, essa entrerà comunque a pieno titolo tra gli apripista in buona compagnia con “Hair” di Rado, Ragni e MacDermot (1967), la brasiliana “Roda Viva” di Chico Buarque (1967), “The Story of Simon Simopath” dei Nirvana (1967), “S.F. Sorrow” di Phil May dei Preety Things (1968) “Tommy” degli Who (disco: 1969, teatro:1970) e “Jesus Christ Superstar” di Webber & Rice (1970 su disco, 1971 in teatro).

loredana bertè orfeo 9Il lavoro si completa il 23 gennaio 1970 quando la pièce viene rappresentata per sette sere al Teatro Sistina di Roma ottenendo un riscontro tale da diventare in capo a tre anni doppio album e un film per la RAI che però venne programmato solo nel 1975 – a tarda ora e sul “secondo canale” - per problemi di censura.

La trama, scritta di getto dal solo Tito Jr è una sorta di modernizzazione del mito di Orfeo il quale, anziché calarsi negli inferi per riprendersi Euridice, deve sottrarla al tunnel della droga.

Se però le prime rappresentazioni annoverarono nel cast artisti praticamente sconosciuti (fatta eccezione per il “sostegno” alla regia della popolare coppia d’autori Garinei e Giovannini), nella trasposizione su disco e nel film comparriranno non solo alcuni personaggi destinati ad entrare nella storia del rock, ma anche alcune figure già note nel mondo del progressive italiano.
Ad esempio nei panni dello spacciatore si incontra un giovanissimo Renato Zero che aveva preso il posto dell’attore teatrale Simon Cattin. Tra i narratori, oltre alla già nota Penny Brown, c’è Loredana Bertè, mentre sparsi nel cast fanno capolino il futuro dj-cantante Ronnie Jones, Santino Rocchetti (che da quattro anni aveva abbandonato il complesso dei “Rokketti” che includeva i futuri “Seconda Genesi” Alberto Rocchetti e Giambattista Bonavera), il leader dei Brainticket Joel Van Droogenbroeck e il futuro compositore di "Rocky", Bill Conti.
Invece, tra i musicisti della scena prog segnaliamo: Tullio de Piscopo (futuro “NT Atomic System”) e Andrea Sacchi (già chitarrista degli "Alluminogeni”).

Probabilmente, avrebbe dovuto essere della partita anche Roby Facchinetti dei Pooh, ma la leggenda vuole che declinò l’invito perchè troppo impegnato con il suo gruppo.
E' assoldato invece che una collaborazione fu chiesta anche agli Osanna, ma essendo d'accordo praticamente il solo Vairetti, anche loro restarono a casa propria.

renato zero orfeo 9Sull’onda del successo teatrale, il disco (uscito come doppio Lp) fu registrato per quanto riguarda le parti orchestrali a Milano tra l’autunno 1971 e l’estate del 72 presso gli studi della Fonit Cetra, mentre quelle vocali vennero incise a Roma allo “Studio 38”, sempre nello stesso periodo.

L’album ebbe diverse emissioni, ma la prima in particolare passò alla storia per il primissimo piano dello Schipa Jr. con gli occhi chiusi, ma con le palpebre truccate a mo’ che sembrassero aperti.

Musicalmente l’album riflesse la stessa straordinaria emotività della pièce giostrandosi stili diversi a seconda delle ambientazioni: dal prog rock introduttivo all’heavy freak di “Vieni sole(palese tributo a Hair), sino alla drammatica “Venditore di felicità”. Il tutto, condito da forti tinte underground che pur risentendo molto dello spirito acquariano, furono comunque perfettamente contestualizzate nel loro tempo storico. In questo senso, Tito Schpa Jr compose davvero a livelli davvero molto alti.

Un gioiello della musica italiana dunque, la cui forte attinenza con la propria realtà lo renderà tuttavia presto datato. Solo formalmente però: considerate le vendite nel tempo, il mito di Orfeo 9 continua a resistere ancora oggi.

Uno: Uno (1974)

Tra tutti gruppi Prog italiani dei primi anni '70 che ricossero un certo successo in patria, gli Osanna furono gli unici nel 1974 a non aver ancora tentato la carta internazionale.

Probabilmente ciò accadde perché, proprio nel momento che sembrava più propizio per un lancio all'estero, la band era già praticamente disciolta e soltanto Elio D'Anna e Danilo Rustici si fecero carico di questa sfida
Battezzatisi "Uno", reclutarono il batterista Elio Valicelli (ex Silver e i Baci, Hellza Poppin e collaboratore di Osage Tribe, Claudio Rocchi e degli stessi Osanna in "Lanscape of life") e, snobbando i mezzi che la Fonit aveva messo loro a disposizione in patria, si recarono in Inghilterra per incidere l'unico album della loro carriera.
A questo punto, vuoi per la sua prestigiosa line-up, vuoi per i gloriosi percorsi pregressi o per il crescente strapotere del marketing, per un po' di tempo in Italia non si sentì parlare d'altro che di questo neonato trio di musicisti che godette di una produzione senza precedenti.

Nel giro di pochissimo tempo, la Fonit diede loro il massimo della disponibilità finanziaria e, a discapito di molti altri gruppi che avrebbero meritato altrettanta attenzione (es: i Procession che si videro drasticamente ridotto il loro budget), mise a disposizione del trio i prestigiosi Trident Studios di Londra, affiancò loro un language supervisor del calibro di N.J.Sedwick e coriste quali Liza Stike (entrambi dell'entourage dei Pink Floyd), fece curare la grafica dell'edizione inglese nientemeno che dallo studio Hipgnosis, pubblicò il disco in mezza Europa e attivò un battage mediatico mai visto prima.
In altre parole, stando ai pruriti della nostra discografica nazionale, il disco degli "Uno" avrebbe dovuto essere un successo planetario ancora prima di essere immesso sui mercati.
Ma non fu così.

L'album infatti, pur essendo formalmente gradevole e tecnicamente molto ben curato, si scontrò impietosamente con l'impossibilità di restituirlo pienamente dal vivo, tanta era la disparità tra le ridondanti tecnologie impiegate in studio e la modestia numerica della line up.
Essendo solo in tre (batteria, fiati, chitarra o tastiere), era infatti palese che in concerto gli Uno non potessero fisicamente restituire tutta la magnificenza delle sonorità ottenute in sala di registrazione, generando così un "gap" che non solo lasciò il pubblico interdetto (per non dire offeso), ma segnò rapidamente il declino della band.

A peggiorare la situazione, sembra anche che il gruppo avesse un notevole display scenografico, che però finì per acuire le disparità anziché appianarle.
Certo: a fronte di tanto dispendio economico verrebbe da chiedersi come mai per i concerti non fossero stati affiancati agli "Uno" almeno un paio turnisti in più, oltre al povero Corrado Rustici (ex "Cervello" e fratello di Danilo) a cui fu affidato l'ingrato compito di tappabuchi al basso e alla chitarra, ma questo non ci è dato di sapere.

Limitandosi all'ascolto comunque, ci si trova veramente davanti a un album perfettamente levigato, pur nella sua evidente deferenza al mercato straniero: ottima incisione, arrangiamenti impeccabili, sonorità curate al limite della maniacalità e grande risalto alle capacità tecnico-esecutive dei musicisti.

Tutti e sette i brani godono di un sound ampiamente forgiato su misura per l'evidente scopo commerciale: raddoppi sul flauto, cori sontuosi, grande dinamica acustica e una voce straordinariamente cristallina e ben bilanciata, con qualche neppure troppo malcelato riferimento al Vittorio de Scalzi di Ut.

Ciò che resta nel cuore dopo tanta manifestazione di prestanza tecnica però, è solo una briciola di quel che furono gli Osanna e appena un soffio di quello che avrebbero voluto essere gli Uno: troppo tronfi nel portafoglio e troppo modesti nella resa.
E presto se ne resero conto anche loro.

Malgrado le vendite confortanti, il disco non coprì gli investimenti della produzione e sia D'Anna che Rustici se ne tornarono in Italia con le pive nel sacco a coltivare progetti più verosimili.
Va da sé che il movimento non gradì affatto il lavoro esterofilo dei due ex Osanna e tutta l'avventura degli Uno cadde presto nel dimenticatoio.
Se è vero che "i soldi non fanno la felicità", questo episodio del nostro Pop ne fu la dimostrazione più lampante.

Capricorn College: Lp di primavera (1974)

capricorn college lp di primaveraINTERVIENE NEI COMMENTS MARINELLA BARIGAZZI, FIGLIA DEL M° BARIGAZZI



Se il disco eponimo del 1972 era difficilmente ascrivibile al prog, la seconda prova a 33 giri dei Capricorn College che vide il fiatista Antonio Balsamo sostituire Guerrino Franchini, lo fu ancora meno.

Presentatisi questa volta a nome di “Barimar & i Capricorn College”, il sestetto capitanato dall’allora quarantanovenne tastierista e compositore parmense Mario “Barimar” Barigazzi, propose nel suo nuovo album del 1974 ben 12 brani che confermarono definitivamente come la band fosse completamente disinteressata all’avanguardia e proiettata decisamente verso tutta un’altra audience, molto più incline alle orchestre da ballo che non ai gruppi rock.

Pubblicato anch’esso per la discografica Kansas di Seren Gay e Miki del Prete (noto per aver lavorato a lungo con Adriano Celentano) che di lì a un anno avrebbe osato un po’ di più con gli E.A.Poe, “LP di Primavera” infatti, non solo fu un prodotto perfettamente calzante alle soffuse atmosfere dei piano bar o dei night club, ma a differenza del disco d’esordio non produsse nell’arco dei suoi 40 minuti nemmeno mezza nota che fosse assimilabile a qualsivoglia alternativa.

mario barigazzi barimarIl tutto, malgrado l’indubbia classe dei musicisti che da un lato sapevano evidentemente il fatto loro, ma dall’altro non avevano palesemente alcuna intenzione di misurarsi con le nuove tendenze giovanili.
All’ascolto tutto ciò balza all’orecchio in maniera più che lampante.

Cone vuoi” ad esempio, ricalca certe atmosfere soleggiate e romantiche a mezza via tra le composizioni di Bruno Martino e Fred Bongusto. “Primavera” è invece uno swing dal sapore anni ’50, anch’esso farcito da testi romantici e coretti che lasciano assai a desiderare in merito a originalità.
La vita(lato B di “Una donna come te”, unico 45 giri estratto dall’LP) è un’altra canzone da piano bar che pur se valorizzata dall'intensa voce del cantante Ferro, sembra a conti fatti un filler del primo Drupi con tanto di testi al limite del semplicismo sotto vuoto spinto:
Quando guardo alla finestra la tua macchina che parte, mi si apre tutto intorno un abisso profondo e muoio un’altra volta perchè penso sempre che prima o poi finisce una storia così”.

Trascorsa una manciata di brani palleggiati tra manierismi classicheggianti e placide atmosfere da rotonde sul mare, il disco procede senza scossoni e, a questo punto, viene da pensare chiunque abbia annoverato i Capricorn College in certi libri sul progressivo debba farsi un serio esame di coscienza.

barimarCertamente, a discapito di un disco formalmente semplice e levigato, fa da contraltare il grande stile del M° Barigazzi nel dar lustro ai brani strumentali che ben certificano la sua stamina e quella della sua orchestra.
Il resto però, occorre ammetterlo, è acqua tribolata. Un groove certamente conturbante e afrodisiaco da gustare con il partner nelle magiche sere delle belle stagioni, ma nulla che riguardi il rock progressivo. Nemmeno lontanamente.

Dopo il modesto riscontro di “Lp di Primavera” i Capricorn College proseguiranno la carriera ancora per quattro anni ma senza incidere più nulla.
Questo, almeno sino al 1978 quando sull’onda della disco music, pubblicheranno per l’etichetta Ball Fire il singolo Start music/California il cui disinteresse da parte del pubblico porrà fine alla band.
Dopo diverse ulteriori produzioni e collaborazioni da solista, Mario Barigazzi si ritirerà a vita privata nel suo laboratorio musicale di Selvapiana di Canossa in provincia di Reggio Emilia.