Piero, Ezio e Tino: Mi chiamo Piero (1972)

Mi chiamo Piero
Il trio “Piero Ezio e Tino”, protagonista di un solo LP nel 1972, si forma a Voghera ad opera di Piero Cairo (tastiere e voce), Ezio Cristiani (voce, chitarra, flauto) e Tino Negri (voce e basso). 

Del gruppo si sa molto poco, se non che il loro unico disco venne pubblicato col numero di catalogo 55013 dalla Rare Records: una sussidiaria della francese Barclay a distribuzione Ricordi che aveva una sede a Milano diretta da Gian Piero Simontacchi e che annoverò tra le sue produzioni, solitamente poppish, anche i Corvi nel 1969 e la NCCP nel 1971. 

Sappiamo poi che quell’album s’intitolava “Carta d’identità n°1. Io mi chiamo Piero” e che le canzoni furono firmate da G.Bertero, V.Buonassisi e dallo stesso Piero Cairo che ne curò anche della direzione musicale. 
Ad affiancare i musicisti: il tecnico del suono Gian Luigi Pezzera, Roberto Ferracin all’organo e Sergio Chiesa alla batteria. 
Anche riguardo al periodo di attività della band le informazioni scarseggiano, ma dal sito del chitarrista Graziano Binda che collaborò con loro nel 1975, desumiamo che il terzetto rimase sicuramente in attività almeno altri tre anni dopo la pubblicazione dell’album. 

Carta d'identità n° 1 . Mi chiamo Piero
Infine, fonti sparse della rete ci dicono che, terminato il suo periodo pop, Piero Cairo ebbe migliori indotti con la Disco Music e che successivamente collaborò con musicisti del calibro di Venditti, Ramazzotti, Edoardo De Angelis e Zucchero per il quale suonò le tastiere nell’Lp “Un po’ di Zucchero”. 
E questo è quanto ci è dato di sapere sulla storiografia di questo gruppo. 

Per quanto concerne l’album, si ha l’impressione di trovarsi al cospetto di un piccolo concept, forse autobiografico, che racconta frammenti di vita di un tale Piero: un tipo apparentemente normale che durante la settimana lavora sodo e la domenica “si veste bene” per andare a ballare in periferia. O almeno, questo è quanto si evince dal primo brano “Mi chiamo Piero”: un recitativo che richiama più o meno il sound di “Terra in Bocca” dei Giganti, pubblicato appena un anno prima. 

La maggior parte dei 12 brani del disco sono brevissimi e ad impostazione prevalentemente cantautorale, da cui non si capisce bene come mai quest’albumo venga etichettato come Prog
Tuttavia, “Mi chiamo Piero” ha una sua personalità ben definita, certamente ascrivibile al Pop italiano Underground di quegli anni e che emerge soprattutto dalla varietà e dal gusto degli arrangiamenti che, va detto, sono molto raffinati

L’incipit del disco appare sostanzialmente una raccolta di impressioni quotidiane dell’autore che dopo essersi presentato nella leading track, ci propone brevi stanze di vita che si susseguono con una certa organicità: amori, persone, incontri, visioni

Piero Ezio  e Tino
La voce del cantante è sempre ben definita  in perfetto sile beat, ma alle sue spalle, si rilevano sonorità molto ricercate che non disdegnano qua e la interventi orchestrali di sorprendente modernità. 
 In altre parole, Piero Cairo non era affatto un dilettante, anzi: da questo suo primo biglietto da visita emergeva già quell’indubbia classe che lo avrebbe accompagnato negli anni successivi.

"Mi chiamo Piero" contiene dunque spunti molto interessanti, specie in certe soluzioni armoniche, anche se nel complesso non mancano molti rimandi ai gruppi più popolari dell’epoca e ad un certo gusto da “varietà del sabato sera”.

Una via di mezzo insomma tra underground e mainstream che -  piaccia o no -  è un po’ il leitmotiv di tutto l’album. 
In “Io non so il tuo nome” per esempio, c’è un forte retrugusto di New Trolls dei primi anni settanta, “Il cavallo cingolato” richiama atmosfere post-beat, “Cento lire di musica” sembrerebbe il brano più strutturato mentre “Un filo d’erba” suona invece decisamente “freak”. 

Per cui, nulla di “anonimo e scialbo” come vorrebbero certi lettori di Ondarock dunque, ma semplicemente troppo poco conflittuale e innovativo da lasciare il segno. 
Sicuramente però, questo Lp rappresenta una conferma in più di come molti autori dei primi anni ’70 stessero tentando con tutte le loro forze di superare i granitici stereotipi della forma-canzone italiana
A piccoli passi naturalmente, ma comunque coerenti al loro tempo storico.

8 commenti :

Anonimo ha detto...

Grande John,bella riscoperta,questo non se lo c****a proprio nessuno!Anche secondo me non è da buttare,specialmente alcune soluzioni armoniche accattivanti come hai giustamente sottolineato.Certo che alcuni testi non so se siano più frutto di genio o demenza!
Fede,speranza e carità

J.J. JOHN ha detto...

Scusate, ma siete impazziti?
Lo dico a chi ha usato un linguaggio scurrile e a chi crede che su questo blog venga tollerato.

Ribadisco: non lo è, per cui dei tre comments di cui sto parlando non resterà traccia.

Ci si esprima per cortesia con educazione. Per rispetto a me, al mio lavoro e agli artisti.

Vi ringrazio e so che mi capirete.

Anonimo ha detto...

Mi spiace John,non avrei voluto rispondere in quella maniera scendendo al suo livello,ma non mi faccio insultare da uno che nemmeno ha il coraggio di firmarsi.Chiedo scusa a tutti e è volata qualche parolaccia di troppo.
Fede,speranza,carità

ugo ha detto...

mai sentito JOHN ma questo disco ha una sua valutazione e poi esiste una ristampa su cd? grazie ugo

JJ ha detto...

Cia Ugo. Posso dirti solo che a al momento non è stato ristampato in Cd.

Alberto ha detto...

È un gran bel disco, altroché.

Anonimo ha detto...

Disco carino anche se un po' datato e ingenuo a tratti

Michele D'Alvano

DogmaX ha detto...

Nel mio "relistening" dei dischi del prog italiano, a cui sto aggiungendo album che non avevo mai ascoltato, mi sto accorgendo sempre più che, soprattutto nei primi anni, gli artisti provavano a intraprendere delle strade sonore "più tortuose" ma alla fine cascavano sempre sul beat. Anche quest'album ne è l'esempio lampante. A brani che ricalcano la classica forma canzone si alternano piccole schegge prog, che rendono il lavoro interessante, ma un po' troppo incoerente. Come è capitato in molti album di quell'anno.