UN LIBRO PER L'ESTATE? JOHN N. MARTIN: I MURI DEL SUONO !
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NUOVI VIDEO IN RETE: CBGB. LA MUSICA NON SI ASCOLTA. SI DIVORA! L'IMPORTANZA DI CHIAMARSI PUNK |
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Etichette: I MURI DEL SUONO
Non so neppure da dove cominciare.
Sono troppo sconvolto. Come credo lo siate anche voi.
Perché,
per chi ha visto la luce col primo album dei Beatles, ed è stato un
teenager che in Inghilterra (dove vivevo) ha divorato tutto il rock
possibile, Ozzy era al pari di una divinità. Come David Bowie, Marc
Bolan, Who, Kinks, Animals , Led Zeppelin e tutti gli altri che conoscete anche meglio di me.
Ma in particolare, Ozzy Osbourne è stato colui che ha
portato il miglior metal possibile alla portata di tutti, pur senza mai
scalfirne l'anima aggressiva e dannata. E non era cosa da poco.
Di
fatto, se i Led Zeppelin avevano come punto di forza l'equilibrio tra
potenza e meditazione, i Black Sabbath fecero ancora di più evocando
simultaneamente inferno e paradiso, chaos e nirvana. Non l'aveva mai
fatto nessuno.
Pensate solo al contrasto tra Fluff e War Pigs, Planet Caravan e Iron Man, Orchid e Children Of The Grave.
Paragoni che fatti oggi, sembrerebbero scontati, e invece no.
Ricordiamoci
per sempre che quei chiaroscuri li hanno inventati loro. I Sabs di
Birmingham. E Ozzy ne è stato l'insostituibile portavoce.
Prima
di Ozzy, Tony, Geezer e Bill c'erano l'hard blues inglese e americano. Gli Uriah Heep, i Vanilla Fudge e, al limite, qualche satanista
ante-litteram come Arthur Brown, Screaming Lord Sutch o gli ancora implumi Black Widow.
Ma nessuno mai, neppure lontanamente , ebbe la stessa devastante potenza conflittuale di Ozzy.
Era
chiaro che sarebbe stato lui il profeta degli inferi per tutte le
generazioni a venire, ma anche colui che li avvrebbe mutuati con
quall'amore umano che non rinnegò mai. Nè per i suoi fan, nè per la sua
famiglia, nè per i suoi fratelli più sfortunati, come confermò con la
sontuosa e sentita beneficenza della sua ultima apparizione pubblica.
Scusate
per la turbolenza queste parole scritte di getto e di cuore, ma piango
Ozzy esattamente come voi, e volevo condividere le mie emozioni.
Stiamo parlando di grandi geni che non solo ci hanno cambiato la vita,
ma ci fanno sentire ancora più motivati nel migliorarla.
JJ
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J.J. JOHN
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IN RICORDO DI CELSO VALLI (1950-2025)
Alan Taylor (Halifax 1947, Bologna 2011) è stato un bassista italo-inglese la cui passione per la musica iniziò sin dai tempi della scuola.
Successivamente, la sua vocazione prese una piega professionale quando entrò in un gruppo di Lincoln chiamato “The Casuals” con cui incise ben sette albums ed ebbe una grossa hit nel 1968 chiamata “Jesamine”, divenuta popolare in tutto il mondo.
Arrivati a Milano nella metà degli anni ’60 per una serie di concerti al Paip’s di Corso Europa, i Casuals vennero notati da Gino Paoli che non solo li volle come backing band, ma intercesse presso la Rai per farli partecipare al Festival di Sanremo: cosa che accade con il brano di Panzeri “Alla fine della strada”.
Esaurita l’esperienza con Paoli nel 1969, Taylor decise di stabilirsi definitivamente in Italia e in particolare a Bologna dove nel 1971 formò i Ping Pong grazie all’incontro col chitarrista Mauro Falzoni, il tastierista Celso Valli, il sassofonista Paride Sforza, e il batterista Vittorio Volpe.
Scritturata dalla Emiliana Records la band pubblicò nello stesso anno e con l’ausilio del fiatista inglese Alan King il suo primo 33 giri “About Time” che pur se di nicchia, ben rivelò le notevoli doti tecniche e compositive del quintetto che a questo punto, si dedicò all'attività dal vivo.
Notati questa volta dal produttore Alberto Carisch, già co-fondatore della RiFi e patron della Carisch e della MRC (in cui mossero rispettivamente i primi passi Pepppino di Capri e Caterina Caselli), i Ping Pong vennero poi scritturati nel 1972 per la sua nuova etichetta, la Spark, che tra l’altro sembrava offrire maggiori garanzie della precedente avvalendosi della distribuzione della solidissima Dischi Ricordi.
Arriva così nel 1972 il secondo lavoro a trentatrè giri “Ping Pong” in cui però, sin dalle prime note, si evince che nel prezzo da pagare al colosso discografico milanese, venne inclusa anche una parziale melodizzazione del sound originale.
Inoltre, un’ulteriore spinta verso un sound più riconoscibile venne fornita dal nuovo vocalist Giorgio Bertolani che da qusto momento in poi, connoterà uniformemente tutte le parti cantate.
Se quindi “About Time” poteva considerarsi un album meno levigato e più spontaneo, in “Ping Pong” emerse in maniera più che lampante una maggiore accuratezza, tangibile soprattutto nei tre brani melodici: “Il miracolo” che frutterà al gruppo un'apparizione televisiva nel 1975 nel programma “Adesso Musica” presentato dalla coppia Brosio e Fuscagni, “Caro Giuda” , cover di “A time for winning” dei Blue Mink e tradotta in Italiano da Roberto Vecchioni (che di lì a poco avrebbe fatto il botto con la sua “Luci a San Siro”) e infine “Cresciuta in un paese”, arricchita da parti orchestrali nel tipico stile della musica leggera di quel periodo.
Tuttavia, pur se l’inserimento di brani molto “di presa” potrebbe sembrare al primo ascolto un elemento banalizzante, i restanti cinque brani dell’Ellepì si distinsero invece per grinta e classe fugando ogni dubbio sulla potenziale massificazione dei musicisti.
Ad esempio, la lunga “Suite in quattro tempi” (10 minuti circa) è un pezzo molto stratificato che pur se non associabile al rock progressivo, propone intarsi stilistici estremamente raffinati e nondimeno un linguaggio articolato e misto che associa con nonchalance momenti jazz, acustici, lirici e meditativi per chiudersi addirittura con un siparietto finale anticipato da un lungo assolo di batteria.
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J.J. JOHN
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Etichette: PING PONG
IN RICORDO DI CELSO VALLI (1950-2025)
Su questo quintetto emiliano che ha inciso due album tra il 1971 e il 1973 e che si riciclò nel 1975 col nome di Bulldog (nove singoli in quattro anni) si sa ben poco, eccetto che nelle sue fila militò un ventunenne Celso Valli, futuro arrangiatore di "Self Control" di Raf, "Nell'aria" di Marcella, "Ti sento" dei Matia Bazar e fidato collaboratore di Mina, Renato Zero, Celentano, Pausini, Baglioni, Ramazzotti, Boccelli, Jovanotti e Vasco Rossi.
Tanto basta per prendere in considerazione almeno il loro primo album del 1971 che, al di là della sua minima visibilità, contenne delle intuizioni davvero interessanti.
Formatisi nei primi anni '70 tra Modena e Bologna, i Ping Pong annoveravano all'epoca Mauro Falzoni (chitarra, voce), Paride Sforza (sax, clarino), Vittorio Volpe (batteria), Alan Taylor (basso, voce - proveniente dal gruppo inglese dei Casuals) e lo stesso Valli (tastiere).
La loro prima esperienza discografica a 33 giri "About Time", ebbe luogo nel 1971 grazie all'interessamento dell'oscura discografica "ER - Emiliana Records", da qualche anno specializzata in liscio, melodico, blues jazz e canti partigiani.
Per cui, pur non avendo alcuna informazione a riguardo, si può intuire che ciò che portò il quintetto dall'anonimato alla sala d'incisione, fu quasi sicuramente una serie di relazioni amicali radicate nella vita di provincia.Tuttavia, occorre anche sottolineare che, alla prova dei fatti, il gruppo si dimostrò più che apprezzabile sia da un punto di vista tecnico che compositivo, anche considerando l'anno di uscita del disco.
In pratica, "About Time" è una raccolta di 10 canzoni molto variegate per stile e per intenti. Sorprendentemente l'incisione è ottima e le esecuzioni dei vari brani palesano una solida omogeneità degli stumentisti che, in qualche episodio ("About Time", "Funny Wife"), dimostrarono anche di saper andare molto oltre gli stilemi dell'epoca.
Ben inteso, non c'è nulla di innovativo che accomuni i Ping Pong ai veri pionieri del Prog italiano (Formula Tre, New Trolls, Nuova Idea, Rocchi o i Trip), ma certe soluzioni armoniche lasciano davvero sorpresi, anche considerata la minima conflittualità del gruppo e la sua ristretta distribuzione geografica.
Nel brano di apertura "About Time" per esempio, sembra quasi che i Beatles vengano stravolti da una Pfm che non è ancora nata.Le influenze straniere sono più che evidenti, ma è veramente encomiabile, specie nel finale del brano, la disinvoltura con la quale vengono rimescolate in chiave mediterranea.
Inoltre, se buona parte del disco richiama atmosfere da tardi anni '60 (CSN&Y), l'esposizione resta sempre su un livello straordinariamente limpido e personale.
Quasi avveniristico suona il pianismo introduttivo di "Dark morning skies" che richiama non poco gli Steely Dan, sobrio e asciuttissimo il Rock di "Daft", ai limiti del jazz-prog "Confusion", eleganti e precise "Someway" e "Diamond Seller".
In sostanza, si capisce che "About time" sia un disco senza grandi pretese, ma non per questo disattento alla qualità: fluido e sobrio nella sua realizzazione, non ridonda mai in effettistica, non eccede in tecnicismi e infine risulta piacevolmente sanguigno nella sua esecuzione, solo così come la scuola emiliana sa veramente fare.
L'album - ripeto - ebbe poca diffusione e men che meno impatto commerciale, ma chi lo apprezzò all'epoca, sapeva già che qualcuno di "quei cinque" avrebbe fatto strada.
La storia ci confermerà che non aveva torto.
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J.J. JOHN
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Etichette: PING PONG
Il nemico non è oltre la tua frontiera.
Il nemico non è al di là della tua trincea.
Il nemico è qui tra noi,
mangia come noi, parla come noi, dorme come noi, pensa come noi,
ma è diverso da noi
Il nemico è chi sfrutta il lavoro e la vita del suo fratello.
Il nemico è chi ruba il pane e la fatica del suo compagno.
Il nemico è colui che vuole il monumento per le vittime da lui volute
e ruba il pane per fare altri cannoni
e non fa le scuole e non fa gli ospedali per pagare i generali.
Per un'altra guerra.
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J.J. JOHN
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I MIGLIORI ALBUM DI ROCK PROGRESSIVO ITALIANO. N° 1
Esattamente come
Tuttavia, contrariamente ai cugini di Milano che con "Per un amico" avevano subito una lieve flessione, il B.M.S. non solo bissò il successo ottenuto col primo Lp, ma sono in molti a ritenere che con "Darwin" fece ancora meglio.
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J.J. JOHN
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Etichette: BANCO DEL MUTUO SOCCORSO
I MIGLIORI ALBUM DI ROCK PROGRESSIVO ITALIANO. N° 2
Correva il 1973 e all'estero sono come al solito avanti anni luce: i Genesis pubblicano "Selling England by the pound", i King Crimson "Lark's tongue in aspic", gli Yes "Yessongs", i Pink Floyd "Dark side of the moon" e gli ELP "Brain salad surgery".
In Italia, la lacerante frattura tra "underground" e "movimentismo" innesca uno dei periodi più intensi e sofferti della nostra nazione: il "personale" diventa "politico" e tutto deve essere vagliato nell'ottica dell'anticapitalismo.
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Etichette: OSANNA
I MIGLIORI ALBUM DI ROCK PROGRESSIVO ITALIANO. N° 3.
A distanza di due anni dal disco d'esordio "Sirio 2222", i napoletani Balletto di Bronzo subiscono una vera e propria trasfigurazione fisica e stilistica.
Protagonista: il tastierista Gianni Leone, detto LeoNero, proveniente dal primo nucleo dei dissolti Città Frontale.
La trasformazione è radicale, e accanto allo stesso Leone, subentra anche il bassista Vito Manzari (ex "Quelle strane cose che") al posto dei più discreti Michele Cupaiuolo e Marco Cecioni.
Leone ha le idee chiare, la strumentazione adeguata, e un carisma talmente preponderante da traghettare tutto il sound del gruppo dal post-beat psichedelico degli esordi al Prog più radicale.
Persino la primigenia discografica RCA, spaventata dal nuovo corso della band, la cede volentieri alla Polydor che nel frattempo si sta interessando sempre di più al nuovo Pop d'avanguardia (Latte e Miele, Mauro Pelosi, Bill Gray dei Trip) e non lesina nella produzione del quartetto napoletano: copertina sontuosa con tanto di libretto interno, mixaggio molto sofisticato ad opera del noto fonico Gaetano Ria, e collaboratori di prestigio tra cui il M° Mariano Detto del Clan Celentano.
Ttra le quattro coriste di studio, spicca anche una certa Giusy Romeo (poi Giuni Russo) destinata dieci anni più tardi a una brillante carriera solista.
Il nuovo parto del Balletto s'intitola "Ys" e già dal concetto di base si intuisce che si tratta di un lavoro ambizioso e trascendentale.
Il racconto descrive gli incontri dell'ultimo uomo sopravvissuto sulla terra prima dell'apocalisse con tre personaggi: una figura straziata e agonizzante, il Cristo e probabilmente, la stessa figura della Morte.
Ad ispirare il tutto, la mitica città Bretone di Ys sulla baia di Finisterre, sommersa dall'Oceano Atlantico nel 444 a.C. per colpa, si dice, dell'imprudenza della giovane principessa Dahout che ne spalancò inopinatamente le chiuse esponendo la città alla marea devastatrice (una versione "ante litteram" del disastro di Chernobil, se vogliamo).
Al di la della teoria però, ciò che consegnò questo disco alla storia, fu la sua rivoluzionaria architettura musicale che, pur se omogenea e rigorosa in senso classico, presentava un groove talmente destrutturato da rendere tutta l'opera assolutamente esclusiva per l'Italia del 1972 .
L'assenza di melodia è totale. Le voci iniziali, da cupe e funeree, sfociano in complesse polifonie su un tappeto di tastiere dissonanti e preziose cesellature di chitarra che sembrano prese in prestito dal miglior Robert Fripp.
La ritmica è un incessante accavallarsi di sincopi e di tempi dispari.
Persino i cori, che nell'accezione classica dovrebbero armonizzare la melodia, vengono invece utilizzati per confonderla e disarticolarla.
Il disco alterna momenti elettronici ad atmosfere hard jazz in un continuum di evocazioni, allucinazioni armoniche, sequenze multiritmiche, citazioni barocche e narrazioni cantate. In altre parole: rock progressivo allo stato puro.Ogni singolo movimento, viene frammentato in più passaggi (che si sviluppano anche nell'arco di pochi secondi) che denotano non solo un'impressionante fantasia compositiva, ma anche una straordinaria abilità di assemblaggio.
Le sonorità sono costantemente diversificate dall'artiglieria di tastiere di Gianni Leone.
L'epilogo che descrive l'apocalisse è un incrocio tra Bach e i Quartieri Spagnoli: quasi troppo bello per essere descritto, e forse altrettanto difficile per essere apprezzato.
Purtroppo, Ys fu "apocalittico" non solo nella sua forma artistica, ma anche per lo stesso Balletto di Bronzo che cessò di esistere poco dopo: sopraffatto da dissidi interni, da una vita sregolata, e soprattutto, deluso dalla sostanziale incomprensione con cui venne accolto il loro capolavoro.
Personalmente non credo che "Ys" abbia influito più di tanto sul panorama Prog Italiano. Pur ammettendo che fu un'opera trasgressiva e unica nel suo genere, infatti, fu anche talmente magniloquente da risultare alfine più edonista che comunicativa.
Del resto, la sola avanguardia, pur se spinta ai massimi livelli, non basta a restituire un percorso universalmente riconosciuto: ci vuole anche la comunicatività, e Ys, di sicuro, non ne aveva.
BALLETTO DI BRONZO - Discografia 1970 - 1972:
1970 - SIRIO 2222
1972: YS
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Etichette: BALLETTO DI BRONZO (IL)
I MIGLIORI ALBUM DI ROCK PROGRESSIVO ITALIANO. N° 4
La prima formazione degli Area (Stratos, Capiozzo, Djivas, Lambizi, Gaetano e Busnello) nacque intorno al 1970 lasciando presagire qualcosa di straordinario e inedito nel mondo discografico Italiano.
Eustratios Demetriou (Eustratios di nome e Demetriou di cognome) era nato da genitori greci ad Alessandria d'Egitto dove aveva studiato pianoforte al prestigioso conservatorio locale. Dopo un periodo trascorso a Cipro, si trasferì a Milano per seguire gli studi di Architettura che però lasciò per entrare nel circuito musicale: prima con i Ribelli e poi da solo (il suo primo 45 giry "Daddy's Dream" del 1972 fu per la Numero Uno di Lucio Battisti) .
Giulio Capiozzo studiò anch'egli al Cairo dove imparò le poliritmie: emiliano di lontane origini Turche passò anche molto tempo a Parigi dove conobbe Kenny Clarke e il Be Bop. Tornato a Milano nel 1969, conobbe Stratos.
L'eccellente fiatista Victor Edouard Busnello era invece un giramondo che si dice abbia conosciuto Miles Davis a Parigi e che sempre nella ville lumière incontrò Capiozzo mentre militava nell'orchestra dello stesso Kenny Clarke.
Il bassista francese Yan Patrick Erard Djvas arrivò in Italia con il gruppo di Rocky Roberts e suonò per breve tempo nella band di Lucio Dalla insieme al tastierista Leandro Gaetano.
Johnny Lambizi era un chitarrista ungherese su cui non si hanno molte notizie, ma che fece parte anche lui dei primissimi Area, dando un notevole contributo a tracciare gli abbozzi dei
primi brani originali della band.
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Etichette: AREA
I MIGLIORI ALBUM DI ROCK PROGRESSIVO ITALIANO. N° 5
Non doveva essere piacevole in pieno clima Underground essere etichettati come "fascisti", anzi: sappiamo benissimo che chi lo era realmente, o solo sospettato di esserlo, veniva sistematicamente tagliato fuori da qualunque circuito artistico alternativo.
Il concetto di "Dio, patria e famiglia" infatti, mal si azzuppava con i dogmi rossi della conflittualità, della trasgressione e del "nuovo ad ogni costo" che albergavano nella musica Prog e nei suoi adepti.
Quindi, che piacesse o no, gli anni 70 furono un periodo in cui era meglio prestare attenzione non solo alla normale dialettica, ma soprattutto alla valenza delle proprie provocazioni. Una scelta poco azzeccata poteva condurre all'ostracismo e questo fu proprio ciò che accadde ad un quintetto di Bordighera: i Museo Rosenbach.
Nati nel 1971 dalla fusione della "Quinta Strada" e del "Sistema" (uno dei primissimi gruppi a suonare Prog in Italia che comprendeva anche il futuro Celeste Leonardo Lagorio), i cinque iniziarono subito le attività chiamandosi "Inaugurazione Museo Rosenbach", proponendo cover straniere e facendo da spalla a gruppi di una certa rilevanza quali Delirium e Ricchi e Poveri. Il loro nome, scelto dal bassista Alberto Moreno, significava letteralmente "ruscello di rose" e pare fosse ispirato a quello di un non meglio precisato editore tedesco
Nel 1972, la successiva scelta di comporre materiale originale, spinse la band a contrarre il nome in "Museo Rosenbach" e contemporaneamente provocò un contratto con la discografica Ricordi, già avvezza al Progressive per via del Banco, Hunka Munka e della Reale Accademia di Musica.
Il risultato che vide la luce nel 1973 è considerato a tutt'oggi una della pietre miliari del Prog italiano, "Zarathustra": composto su musiche di Moreno, testi del collaboratore esterno Mauro La Luce (già paroliere per i Delirium), inciso presso i professionalissimi Studi Ricordi e orchestrato dallo stesso Museo.
Musicalmente il disco si divide tra una lunga suite omonima che occupava tutto il primo lato e tre brani anch'essi in puro stile Prog sulla facciata cadetta.
Come ormai tutti sappiamo, l'album era un capolavoro e avrebbe meritato una massiccia diffusione non solo nazionale ma planetaria, come dimostrano ancora oggi le numerose manifestazioni d'affetto da ogni dove. Qualcosa però andò storto e qui mi ricollego all'inizio di questa scheda.
Di fatto, nella drammatica copertina di Wanda Spinello che ritraeva un collage dal volto umano in stile Arcimboldo, appariva chiaramente sulla mascella destra un busto di Mussolini.
Apriti cielo!
Il Museo Rosenbach era finito ancora prima di cominciare.
A nulla valsero le spiegazioni del celebre designer Cesare Monti che sosteneva la tesi della mera provocazione e che, in fondo, la figura di Zarathustra era intesa come "colui che anelava al bene attraverso la meditazione e la natura."
La sommatoria "Duce + Nietzsche" provocò l'immediato allontanamento della band non solo da tutto il nascente movimento Controculturale, ma persino dalla Rai che, a scanso di grane, rifiutò loro qualsiasi apparizione promozionale.
Dopo la partecipazione al Festival Nuove Tendenze di Napoli nel 1973 e comunque duramente pressato da un'opinione pubblica avversa, il Museo si sciolse durante la preparazione del secondo disco e dei Rosenbach anni ' 70 non rimarrà che un rarissimo album a cinque stelle e qualche raccolta postuma pubblicata negli anni '90.
Golzi intanto, sarebbe andato a formare i Matia Bazar con ben altro indotto economico.
A parte l'ineccepibile sound di "Zarathustra" di cui vi rimando alle numerose recensioni esistenti, questa volta mi premeva solo rimarcare come un tempo certi items extra-musicali fossero assolutamente fondamentali per le sorti di un gruppo, di un artista o di un qualsiasi autore. E lo zeitgeist, si sa, è uno dei valori necessari per comprendere anche il più piccolo parto dell'ingegno umano.
Il 1973, per intenderci, era un'epoca in cui solo girare per una strada "sbagliata" vestiti in maniera "inopportuna", o con sottobraccio un giornale "non allineato" (sia da una parte che dall'altra), voleva dire provocare un conflitto anche tragico.
Altro aspetto evidente è che, allora come oggi, i musicisti non avessero certamente il pieno controllo della propria opera. E purtroppo, non sapremo mai cosa sarebbe successo se qualcuno della band si fosse accorto di cosa conteneva quella dannata copertina.
GRAZIE ALL'AMICO ALBERTO MORENO PER LA STIMA E PER L'AMICIZIA
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J.J. JOHN
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Etichette: MUSEO ROSENBACH
I MIGLIORI ALBUM DI ROCK PROGRESSIVO ITALIANO. N° 6
Quando Francesco Battiato arrivò da Jonia a Milano nel 1965 con molte idee e pochi soldi, non era il distinto e posato signore che abbiamo conosciuto negli anni successivi, anzi, il perfetto contrario.
Possedeva innanzitutto una determinazione fuori dal comune che lo portò non solo a superare le difficoltà di qualunque emigrato dell'epoca, ma a sopravvivere nel cinico mondo della musica leggera ed affermarsi come una delle principali realtà dell'avanguardia Italiana.
La prima fase di sostentamento si risolse già nel 1965 con la pubblicazione di due flexi disc per la NET (retribuzione: diecimila lire a disco) e nella costituzione del duo "Gli ambulanti" in coppia col pianista e compaesano Gregorio Alicata per cantare canzoni di protesta davanti alle scuole
Lo step successivo fu quando i due vennero notati da Giorgio Gaber che fece fare loro un provino. La cosa però non funzionò, e Battiato scelse di proseguire da solo senza Alicata, visto che nel frattempo Gaber gli aveva procurato un contratto con la discografica Jolly.
Arrivano così altri due singoli ("La Torre" e "Triste come me", 1967) e infine il prestigioso passaggio alla Philips con la quale inciderà ben tre 45 giri tra il 1969 e il 1970: tutti di stampo romantico e tutti di un certo successo (si dice fossero quattro, ma l'ultimo non venne pubblicato), ma a un certo punto qualcosa non va.
Siamo al principio del 1971 e Battiato capisce che i tempi sono maturi per osare di più. Lui è un grande appassionato di biologia, esoterismo, letteratura tedesca e musica elettronica, e la fase romantica comincia a stargli stretta. Anzi, talmente stretta che più di una volta l'avrebbe rinnegata nel corso della sua carriera. Voleva invece "trovare una musica che fosse il corrispettivo letterario di ciò che lo interessava" e si diede da fare.
Si chiuse in un mutismo radicale rinunciando a molte serate e alle lusinghe delle majors, e iniziò a cambiare completamente frequentazioni avvicinandosi sempre di più al fervido ambiente dell'avanguardia milanese.
Intorno al 1970 si dota di un modernissimo sintetizzatore VCS3 e decide che da ora in poi inciderà qualcosa solo se ne avrà il pieno controllo.
Per realizzare i suoi piani, bussa alle porte della neonata etichetta Bla Bla di Pino Massara e lui lo accoglie a braccia aperte.
Risultato: il suo primo trentatrè giri "Fetus", concepito nel 1971, registrato alla Sala Regson di Milano (la stessa di Celentano e Mina) e pubblicato nei primi mesi del 1972.
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Etichette: BATTIATO Franco