Dalton: Argitari (1975)

dalton argitari 1975Dopo aver ottenuto un moderato riscontro col loro primo album “Riflessioni, idea d’infinito” e la vittoria a un Festival Pop a Zurigo (dove comunque va detto che il Prog Italiano non ebbe molti cultori), il quintetto dei Dalton pubblica nel 1974 il singolo “La donna e il bambino / Il vuoto” che anticipa il loro secondo lavoro a 33 giri.

Pur riferendosi ancora a mostri sacri del rock però, balza subito all’orecchio che la band viaggia su binari assai distanti dal groove progressivo degli esordi.

Il lato A non va oltre un volonteroso annacquamento di un qualsiasi brano dei Jethro Tull e quello B suona come una malinconica ballata melodica in stile New Trolls, ma con qualche break ritmico in più.

Nel frattempo, è anche curiosa la decisione del gruppo di prestare la propria immagine a una marca di jeans, realizzando un 45 pubblicitario a nome “Jeans Master Orchestra”, dato in omaggio con i pantaloni e contenente due brani firmati Cereda-Selieri-Reduzzi: “What’s the use of a sail” e “A che serve una vela”: lo stesso pezzo insomma, ma in due versioni diverse.
E’ quindi evidente che nei Dalton qualcosa sta per cambiare, e la conferma arriva poco dopo con l’abbandono del leader Temistocle Reduzzi, sostituito dal cantante Massimo Moretti (che però verrà citato sempre e solo come corista) e del flautista Alex Chiesa al cui posto subentra il tastierista Giancarlo Brambilla.

Cambia anche la discografica e nel 1975 la nuova line-up pubblica per la IAF il 33 giri “Argitari”, dotato di una sontuosa copertina a tinte forti apribile in tre parti e contenente ben 10 brani della durata media di tre minuti e mezzo.
In sostanza, un album di canzoni che poco o nulla ha a che vedere col progressive e che farà rimpiangere a non pochi critici il precedente “Riflessioni...”.

Viziato da non pochi problemi tecnici per cui sembra addirittura che sia stato pesantemente restaurato nella ristampa in CD con tanto di parti di flauto aggiunte ex-post, il nuovo album si dimostra sin dai primi due brani “L’impossibile è possibile” e “Ho visto il sole” una raccolta di canzoni in stile cantautorale con forti implicazioni popular - freak.

argitari dalton 1975Personalmente, non ho mai sentito l’originale ma, se dovessi avallare il fatto che sulla ristampa il flauto è stato veramente aggiunto a posteriori, capirei i miei colleghi di Progarchives che giudicarono l’album del '75 “a bit of a disaster and criticized accordingly”.
Ascoltando poi la terza track “Ho ritrovato la mia donna” si comprendono anche anatemi quali “Dalton is a second-rate blues-rock band” o “this is a mediocre and forgettable record”.


Poi, naturalmente, c’è anche il sentimentale di turno che gli attribuisce un bel 10 out of 10 reputando il disco "melodrammatico, intenso e imprescindibilmente rappresentativo del Prog e del Folk acustico italiano" ma, onestamente, limiterei questo giudizio alla sola testa di chi l’ha pensato.

Argitari” è semplicemente la testimonianza di come un gruppo provinciale stesse rapidamente rientrando nei ranghi della forma-canzone dopo un piccolo e isolato exploit trasgressivo.
Se questa definizione vi sembra troppo rigida, ascoltate la title track e capirete immediatamente quello che volevo dirvi: suoni modestissimi, barocchismi di terza mano, nessuna dinamica ritmica, citazioni melodiche a non finire, durata da airplay e ricalco delle più ovvie melodie da classifica.

Se ciò non bastasse, si ascolti anche la versione italiana di “Blowin in the wind” di Dylan (“La risposta”) in chiave hippy e spero che a questo punto sarete convinti dell’assoluta prescindibilità di questo prodotto.


paciana storyNon avendo null’altro da dire sui Dalton che si sciolsero nel 1979 (Locatelli formerà i Mo.Do e Reduzzi entrerà in un’orchestra da ballo dopo aver suonato con Cereda nell’opera pop “Paciana Story”), chiuderei qui la scheda con un’ultima osservazione.
Al di là del giudizio estetico, un lavoro come “Argitari” fu anche la dimostrazione di come gradualmente la cultura musicale antagonista si stesse modificando non solo ai livelli più alti, ma anche negli strati inferiori.

Ossia, non c’erano solo i Napoli Centrale, i Nova, i Maxophone o Le Orme a contaminare e diversificare il Prog primigenio del ’70-’73, ma lo facevano persino anche quei gruppi che, proprio in quanto marginali, avrebbero potuto osare ancora qualcosa.

Con la sola eccezione degli E. A. Poe e di pochissimi altri, l’Italia si stava riempiendo sin dalle fondamenta di cloni dei Pooh (es: La bottega dell’arte) e/o di bands totalmente disinteressate al rock progressivo. Di fatto, in capo a un anno esso sarebbe sopravvissuto solo come uno dei tanti “ingredienti” del nuovo rock italiano.
In questo senso, già nel ’75, i Dalton avevano compiuto la loro controrivoluzione.

Banco: Banco (1975)

banco banco english 1975Poco dopo le registrazioni di Io sono nato libero anche il Banco del Mutuo Soccorso (diventato per l'occasione semplicemente "Banco") subisce il suo primo rimpasto nella formazione: esce Marcello Todaro ed entra l’ex chitarrista degli Homo Sapiens Rodolfo Maltese che già da tempo collaborava con la band.
Inoltre, in prospettiva di un lancio sui mercati esteri, nel 1974 il gruppo abbandona pur se temporaneamente la storica discografica Ricordi per esaminare alcune proposte contrattuali che nel frattempo erano arrivate dalla Warner Bros e dalla Manticore Ltd.

Alla fine, la spunta la label di Greg Lake e Keith Emerson che non solo pare avesse fornito maggiori garanzie economiche e artistiche, ma che aveva già avuto una certa dimestichezza con il nostro Prog avendo lanciato oltremanica la Premiata Forneria Marconi.

Così, mentre il Banco rallentava la sua attività dal vivo in Italia
per collaudare la nuova line up (segnaliamo i concerti del 31/1/74 al Piper di Roma – data d’esordio di Maltese - e del settembre 74 a Villa Pamphili), partiva il progetto in lingua inglese che avrebbe visto la luce l’anno successivo col titolo di “Banco”, comunemente ricordato anche come “Banco IV”.
Dotato di un'allegra copertina monocromatica raffigurante il solo Di Giacomo, il disco comprende sette brani di cui sei già editi nel primo e nel terzo LP e un inedito, “L’albero del pane”.

Per l’occasione, il gruppo ri-arrangia e re-incide praticamente tutti i pezzi editi salvo la conclusiva “Traccia II” che viene ripresa pari pari da “Io sono nato libero”.

I testi sono tradotti in inglese dalla musicista statunitense Marva Jan Marrow, già collaboratrice di diversi artisti italiani quali La Bionda, Tony Renis, Guccini, Finardi, Fossati e Premiata Forneria Marconi di cui era sentimentalmente legata al bassista Patrick Djivas.

In sintesi la tracklist risulta così composta:

1. Chorale [riarrangiamento del tema di “Traccia II” – da “Io sono nato libero”, 1973]

2. L'albero del pane [Inedito]

3. Metamorphosis [originale: “Metamorfosi” – dal “Salvadanaio”, 1972]

4. Outside [originale: “R.I.P.” – dal “Salvadanaio”, 1972]

5. Leave Me Alone [originale: “Non mi rompete” – da “Io sono nato libero”, 1973]

6. Nothing's the Same [originale: Dopo... niente è più lo stesso – da “Io sono nato libero”, 1973]

7. Traccia II [Ristampa – da “Io sono nato libero”, 1973]


manticoreCertamente agli osservatori più attenti non sfuggirà il fatto che nessun pezzo è stato estratto da Darwin e sinceramente ci sarebbe anche da chiedersi il perchè, visto che il secondo 33 giri del gruppo venne considerato uno dei suoi lavori migliori.
Personalmente non ho notizie a riguardo, ma ritengo plausibile supporre che la band non avesse voluto mettere in discussione l’assoluta organicità di quell’opera e di non dirottarne alcun brano in un nessun altro contesto.

Certo è che a mio avviso, una versione inglese di “750.000 anni fa l’amore...” o di “Ed ora io domando tempo al tempo...” non avrebbero affatto sfigurato nel nuovo progetto, visto anche le ottime doti di traduttrice della Marrow.

Comunque sia, la prima rappresentazione del nuovo lavoro ha luogo al Teatro Malibran di Venezia - con Keith Emerson presente - e la pubblicazione del disco raccoglie consensi praticamente ovunque, sia in Italia che in Europa.
E non a torto.
In effetti, Banco IV è veramente un lavoro molto ben confezionato che alterna sonorità sapientemente “english-oriented” (“Chorale”) con il proverbiale prog mediterraneo che raggiunge il suo apice nell’”Albero del pane”.

banco IV 1975Pur se le versioni inglesi risultano più fluide e meno aggressive di quelle in italiano (soprattutto nei dettagli acustici), ciò che salta subito piacevolmente all’orecchio è che nulla della primigenia freschezza delle composizioni originali viene snaturato né dai nuovi arrangiamenti, né dai testi, e a questo proposito occorre dire che la Marrow compì un lavoro davvero eccellente.
Encomiabile per esempio è la traduzione di “Non mi rompete” che nel suo omologo “Leave me alone” non perde nemmeno per una sillaba la sua potente poetica :
Let me keep on sleeping deep into this slumber /
sleep that’s peaceful as a baby’s sleep / that’s roaring like a drunk with snores like thunder”.

A conti fatti dunque, “Banco IV” fu sicuramente la migliore presentazione del nostro Prog in terra d’Albione.
Al di là dei giudizi tecnici o commerciali per esempio, non mi sentirei di dire che la la PFM avesse raggiunto un così alto livello di trasposizione e che anche in questo caso, il Banco si dimostrò sempre molto più raffinato


BANCO DELMUTUO SOCCORSO - Discografia 1972 - 1978:
1972: BANCO DELMUTUO SOCCORSO
1972: DARWIN
1973: IO SONO NATO LIBERO
1975: BANCO (english)
1976: GAROFANO ROSSO
1976: COME IN UN'ULTIMA CENA
1978: DI TERRA

Milton Nascimento: Clube da esquina 2 (1978)

clube da esquina 2SERIE: I PREFERITI DI JJ JOHN

Salvo per rare eccezioni, la nostra musica d’autore raggiunse negli anni ’80 i vertici più discutibili della sua creatività, riflettendo per molti versi il devastante processo di ricomposizione capitalista.

Tuttavia, è consolante pensare che dall’altra parte del globo, un’intera nazione grande quasi 30 volte l’Italia e appena uscita una terribile dittatura militare, avesse invece approfittato del nuovo corso democratico per produrre le sue cose migliori, almeno dal punto di vista musicale.
Prendiamo per esempio il caso del cantautore brasiliano: Milton Nascimento.

I suoi sforzi per sfuggire alla censura fascista avevano già partorito opere straordinarie quali “Milagre dos Peixes” (1973) e almeno altri cinque album di enorme spessore come “Travessia” del ‘67 e il primo “Clube da Esquina” del 1972.
In altre parole, mentre a partire dal 1978 la maggior parte dei nostri cantanti iniziava a licenziare misticiume di infimo ordine, Milton non solo elevava la sua arte al sublime con il doppio album “Clube da Esquina 2”, ma avrebbe continuato per tutti gli anni ‘80 a sfornare un gioiello dietro l’altro: “Caçador de mim”, “Anima”, “Sentinela”, “Yauaretè”, “Encontros e despedidas” e l’incommensurabile “A barca dos amantes”.
In quello stesso periodo in Brasile, pubblicarono tra l'altro lavori seminali anche Caetano Veloso, Chico Buarque e tutto un altro esercito di compositori finalmente liberati dalle costrizioni del regime.

Eppure, non era solo quella ritrovata libertà che rendeva la musica brasiliana universale. In essa si potevano carpire non solo valori sociali e spirituali di origine ancestrale, ma i frutti di una consolidata democrazia religiosa e razziale, il rispetto per la propria memoria storica e il proprio “genius loci”, l’interazione tra classi sociali (anche se, per altre ragioni sofferta e non esente da violenza), una relativa indifferenza popolare ai meccanismi del capitale e un fortissimo desiderio di contaminazione artistica che restituisse in ciascuna opera la sommatoria dei valori precedenti. Tutti items che in Italia erano ben lungi dall’essere stati assimilati.

milton nascimentoMilton Nascimento (detto "Bituca" dal nome del suo inseparabile copricapo) , nativo di Rio de Janeiro, diventa presto orfano e viene adottato da una professoressa di musica e da un Dj che lo trasferiscono a tredici anni nel cattolicissimo stato del Minas Gerais dove comincia a farsi notare cantando sia canti di fede nelle chiese, sia la musica dei Platters e dei Beatles nei locali di Tres Pontas e Belo Horizonte.
All’età di vent’anni incide il suo primo disco “Barulho de trem” (un 78 giri!), affiancato da alcuni collaboratori che diverranno suoi sodali per tutta la vita.

Verso la fine degli anni ’60 si accorge di lui la futura superstar brasiliana Elis Regina che promuove in tutto il Brasile la sua “Cançao do sal” e ne esalta la straordinaria vocalità (“Se Dio cantasse, avrebbe la voce di Milton”, diceva Elis).
Da quel momento in poi, ognuno dei successivi dischi dell’artista mineiro saranno un successo sia in patria che in America dove nel 1975, intraprende una tournée a fianco di Wayne Shorter, allora sassofonista dei Weather Report.

Nel 1978, Milton è una stella di prima grandezza e dopo 10 albums e 10 anni di carriera professionale, decide di sintetizzare in un solo lavoro tutte le sue esperienze musicali ed umane, avvalendosi di tutti i suoi amici e di una produzione artistica impeccabile.
Risultato: uno degli album più raffinati della storia della musica contemporanea, “Clube da esquina 2” inciso per la prestigiosa discografica Emi.

Il disco è doppio, presentato in una sontuosa copertina apribile con foto, testi e credits e comprende 23 canzoni di cui solo 9 portano la firma di Nascimento. Dunque, un lavoro collettivo in cui la splendida voce di Milton cementa e organizza un universo di pulsioni difficilmente compattabile se non da un genio. In questo senso, azzarderei a paragonarlo con il Miles Davis di “Bitches brew”.

bituca milton nascimentoIl groove è imperniato sostanzialmente su canzoni autorali, laddove però la novità si espleta nella personalissima compenetrazione di riferimenti.
Ci sono gli arrangiamenti orchestrali classici di Wagner Tiso (“Que bom amigo”) , le citazioni al Samba popolare e alla raffinatezza della Bossa Nova (“Reis e Rainhas do Maracatu”), momenti elettrici e rock (“Maria Maria”) ed evocazioni di altissima spiritualità (“Paixao e fé”).

La musica è un continuo mash-up ante litteram e persino il senso di fede (pur se basicamente cattolica) oltrepassa ogni religione mischiando sacro e profano, natura e divino, immanenza e casualità, esattamente così come fecero i nativi brasiliani e gli schiavi importati dall’Angola.
Todo que move è sagrado” (= ”Tutto ciò che si muove è sacro”), dirà più tardi Milton sintetizzando questa filosofia nel brano “Amor de Indio”.

Capisco sia difficile per chi non ha dimestichezza con la musica e la cultura brasiliana cogliere l’assoluto valore di questo disco ma, siccome so di parlare a una platea attenta e consapevole, spero che la mia parzialità vi conduca a procuravi immediatamente questo inestimabile capolavoro del 1978.

Nel frattempo, noi stavamo aprendo il portafoglio per acquistare “Tu” di Umberto Tozzi, “Heidi” della Viviani, “Tarzan lo fa” di Nino Manfredi e “Meteor Man” di Dee Dee Jackson.

Perigeo: La valle dei templi (1975)

perigeo la valle dei templiNel 1975, un nuovo soggetto giovanile proletario, inizialmente periferico ma estremamente combattivo, si stava innestando nelle maglie della Controcultura creando non pochi contraddittori e spostando il dibattito politico su terreni estremamente concreti: droga, disoccupazione, vivibilità dei quartieri-dormitorio, rapporti tra classi e sessi e rappresentatività all’interno delle metropoli.

Anche se, almeno inizialmente, il movimento restò ad osservare questa nuova ondata rivendicativa, era chiaro sia ai militanti che agli artisti che occorreva fare delle scelte politiche e culturali che prendessero atto della sua esistenza.

Musicalmente, per esempio, si trattò di decidere se proseguire sulla strada della complessificazione e della "contaminazione verso l’alto” (es: con il jazz) perpetrate sin dall'anno precedente e avallando quindi la linea cara ai gruppi storici, o spostare la propria conflittualità “verso il basso” per entrare in comunicazione con le tendenze emergenti.
Il problema non era di poco conto visto che un anno dopo il confronto diretto tra il proletariato giovanile e i “gruppi terzinternazionalisti” produsse il disastro del Parco Lambro.
Questo però nel 1975 non si poteva sapere e ognuno dovette agire secondo coscienza.

Molte bands optarono per la prosecuzione dei vecchi stilemi creativi (Aktuala, IPSon Group), altre produssero sonorità del tutto nuove ma ancora acerbe (Il disco dell'angoscia), altre ancora caddero in preda all’inerzia creativa (Orme, Ibis) e davvero in pochi optarono per una scelta coraggiosa: adeguarsi, ma senza rinunciare alla propria personalità. Ad esempio il Perigeo.
La scelta fu ovviamente sofferta perchè, com’è noto a tutti gli analisti, il concetto di “adeguamento” porta sempre a rinunciare a una parte di se stessi e non è sempre facile “innovarsi rinunciando”.

Tuttavia, con consumata abilità commerciale e la consueta perizia tecnica il gruppo di Giovanni Tommaso seppe mutuare con grande classe quelle due tendenze dando alla luce un nuovo album in cui erano contemporaneamente evidenti sia la voglia di una maggiore comunicatività, sia il desiderio di non rinunciare neppure per una nota al proprio stile.
Il disco si chiamava “La valle dei templi”.

perigeo bruno biriacoPur se quaalcunoi attribuì a quell’opera un senso di “stanchezza”, in realtà il dualismo tra conservazione e conflittualità fu risolto in maniera più che dignitosa, per non dire geniale.
Per cominciare il sound venne spostato decisamente verso la “fusion” proponendo ad esempio una title track talmente precisa e diretta da non dare addito a nessuna obiezione né sul suo livello strutturale, né tantomeno sui suoi intenti ideologici.
Chiaramente il sound è molto più semplice di quello del 1973, ma nessuno potrà mai dire che alla base di quel brano non vi sia fosse consapevolezza più che acclarata.

Non secondariamente poi, vennero completamente eliminate le parti vocali: una scelta astuta e intelligente che non solo mise al riparo la band da qualsiasi polemica dialettica, ma concesse un maggiore spazio alle parti soliste. Una mossa non priva di una certa furbizia commerciale, ma perfettamente allineata con la sensibilità interpretativa delle masse.

Infine, come nella migliore tradizione dell’epoca, il gruppo accolse un ospite di riguardo che, nella figura del percussionista Toni Esposito, fornì quelle coloriture ritmiche che sinora erano mancate al gruppo.

rock progressive italianoIn altre parole, “La valle dei templi” risultò un album moderno, frizzante e completo in tutte le sue parti anche se, ovviamente, molti osservatori di estrazione radicale non mancarono di sottolinearne le evidenti strizzate d’occhio al mercato.
All’ascolto però, non si può ancora una volta non rimanere affascinati dalla superbia tecnica dei musicisti e dalla loro coerenza esecutiva.

A parte la title track di cui abbiamo già parlato, spiccano come gemme preziose “Looping” in cui ognuno dei musicisti esalta la sua personalità in una struttura in 3/4 perfettamente organica.
Encomiabili anche la malinconica “Pensieri”, tutta giocata sul crepuscolare pianismo di D’Andrea e “2000 e una notte” dal vago sapore Area.
Chiude il disco “Un cerchio giallo” che, a partire da una vera e propria manifestazione di abilità di Tony Sidney, sfocia in un vellutato finale collettivo perfettamente in sintonia con l’opera.
Pubblicato anche in America col titolo di “The Valley of the temples” il penultimo album del Perigeo anni ’70, restituisce un lavoro certamente più levigato dei precedenti, ma assolutamente coerente con il suo tempo.

Alla fine dell’ascolto, pare rimanga un senso di tensione e mistero: proprio come quello che si prova visitando la valle agrigentina, o che si poteva percepire nel 1975 guardando dall’altro le oscure città in trasformazione.

Capsicum Red: Appunti per un'idea fissa (1972)

capsicum red appunti per un'idea fissa 1972Nati dalle successive modificazioni del gruppo beat "I Prototipi", i Capsicum Red sono quattro musicisti di Treviso dai cognomi inequivocabilmente Veneti: Steffan, Canzian, Bolzan e Balocco.
Di solito, li si ricorda più che altro perchè il loro chitarrista Bruno Canzian entrò nei Pooh al posto di Riccardo Fogli ma, nella realtà, furono piuttosto attivi a partire dal 1971, anno in cui vennero scritturati per l'etichetta Bla Bla in buona compagnia con Franco Battiato, gli Osage Tribe, Juri Camisasca, i Genco puro & Co. e gli Aktuala.

I primi due 45 giri a nome di Capsicum Red sembra non vennero registrati dal quartetto di cui sopra, ma dal solo Canzian (soprannominato "Red" da Pino Massara, patron della discografica Bla Bla) che si avvalse dell'apporto di due diverse backing bands: nel primo singolo, "Ocean" (poi diventato sigla della trasmissione televisiva "E ti dirò chi sei"), venne affiancato da cinque anonimi turnisti e nel secondo, "Tarzan" (scritto apparentemente due anni prima), dal gruppo londinese degli "Stone the Crows"
e da Franco Battiato, autore del brano.

capsicum red 02Riguardo a questa ultima collaborazione, c'è da dire che, anche se Battiato ebbe molto a sminuire questo rapporto ("facevamo parte della stessa etichetta, tutto lì" FONTE: "RARO"), è comunque assoldato che avesse stretto amicizia con Canzian che lo ricorderà come un "bravo ragazzo e ottimo musicista" (FONTE: REDCANZIAN.ORG).

Al principio del 1972 però, Bruno "Red" Canzian, si stanca sia del suo ruolo di "finto Inglese", sia del groove commerciale di cui erano intrisi i singoli sinora prodotti: (diciamo un sound a metà tra i Beatles e le prime ballate di Bowie) e chiama a raccolta gli ex colleghi dei Prototipi Mauro Bolzan (diplomato in pianoforte), Walter Gasparini (secondo chitarrista nei Prototipi ed anche bassista in sostituzione di Paolo Baratto) e Paolo Podda (batteria).

Poco dopo, a seguito della partenza di Gasparini per il servizio militare, il gruppo subisce un ulteriore rimpasto. Entrano Paolo Steffan al basso e il batterista Roberto Balocco (ex Panna Fredda), costituendo così quelli che saranno i Capsicum Red definitivi e gettandosi coraggiosamente nella musica d'avanguardia.
Il risultato è l'album "Appunti per un'idea fissa", sempre prodotto da Pino Massara e dotato tra le altre cose, di una superba veste grafica opera della Al.Sa di Gianni Sassi.

La prima facciata del disco è completamente occupata dalla rivisitazione in chiave rock della "Patetica" di Beethoven in cui si intravedono le indiscutibili virtù strumentali del quartetto.

capsicum red 03Dico "si intravedono" perché sin dalle prime note emergono infelicemente degli abnormi difetti di produzione: suoni impastati, mixaggio discutibile ed una resa dinamica davvero modesta che penalizza ogni sforzo dei quattro nel rendere abbordabile un brano già di per se complesso.
"A bit like some old parmaggiano that has not aged well"
ci farà impietosamente osservare un critico inglese di Progarchives.
Tutto questo pastone timbrico si ravvisa anche nel secondo lato, laddove dove gli strumenti della classicheggiante "Lo spegnifuoco" e il canto della più evocativa "Equivoco", vengono svilite da un suono confuso in cui le dominanti medie sottraggono corpo e dinamica a tutto il lavoro delle frequenze più estreme, sia basse che acute.

capsicum red 04La melodica "Rabbia e poesia" in stile Banco, che lascia più spazio agli strumenti mediani dello spettro acustico (chitarra, voce, piano), ne esce un po’ meno penalizzata anche se non risparmia all'ascoltatore un bel salto sulla sedia quando interviene la piena orchestra finale.
Chiude il disco la splendida "Corale" che da sola surclassa a mio avviso buona parte dei gruppi underground che si muovevano nel 1972.

Non fossi stato un tecnico del suono per tanti anni giudicherei meglio quest'album, ma purtroppo, non posso esimere il mio giudizio dal fatto che anche la resa sonora fa parte della comunicazione.
Se ne accorse anche il pubblico e punì i "Capsicum Red" con un completo disinteresse commerciale.

capsicum red 05Tempo ancora un 45 promozionale ("In una sera"/"Un Fiore") e il gruppo si sciolse.
Com'è noto, Canzian trascorse un breve periodo con gli Osage Tribe per poi essere scelto dai Pooh tra oltre cento pretendenti e Steffan costituì il duo melodico Genova & Steffan.
Più avanti con gli anni Paolo Steffan, rimasto amico di Red, disegnò per i Pooh il celebre logotipo, in uso ancora ai giorni nostri.

J.e.t.: Fede, speranza, carità (1972)

j.e.t. fede speranza caritàA partire dalla seconda metà degli anni '60, si sviluppò in Italia un nuovo filone: quello della cosiddetta “musica di fede”.
La sua origine risiedeva sostanzialmente nell’applicazione di alcuni suggerimenti del Concilio Vaticano II° che, a fronte della crisi delle vocazioni, esortava i fedeli ad utilizzare qualsiasi mezzo, anche il più moderno, per riportare i giovani alla fede cattolica.

Nell’ambito della musica giovanile la strategia funzionò e il fenomeno, inizialmente circoscritto alle sole messe beat e alle opere di qualche musicista devoto (es: Marcello Giombini e la sua “Messa dei giovani”), si espanse rapidamente coinvolgendo persino le sensibilità più progressive: i Delirium di “Canto di Osanna”, i Metamorfosi “con “Inno di Gloria”, i Latte e Miele di “Passio secundum Matthaeum”, i Samadhi con “L’Angelo” e i genovesi J.e.t. di cui parleremo tra poco.

Pur non disprezzabile nel suo intento però, la rivoluzione conciliare non riuscì mai ad avere una reale valenza presso le controculture, ne tantomeno a crearsi uno stile realmente autoctono, ricalcando invece stilemi e moduli espressivi già ampiamente collaudati: Blues, Rock, Folk, Beat, Psych e via dicendo.
Del resto, era assolutamente impensabile coniugare una dottrina fondata sull’abnegazione e la rinuncia con le nuove pulsioni libertarie (lo stesso termine “messa beat” è una contraddizione se si pensa che il movimento Beat era quanto di più anticlericale ci fosse) o comunque, sedurre un “movimento” che lottava su ben altre basi rivendicative.
Quindi, dopo un beve momento di boom che si estinse grosso modo con la fine dell’underground, la “musica di fede giovanile” ritornò appannaggio dei fedeli e dei loro circuiti e ivi rimarrà sino a i giorni nostri.

jet. fede speranza caritàIn ogni caso, perlomeno fino al 1972 alcuni aspetti della spiritualità che permeava la musica cristiana, attecchirono effettivamente anche in una certa parte del Prog che all’epoca viveva il suo momento più mistico e desiderante.

I J.e.t. per esempio, furono uno dei gruppi che più si lasciarono trasportare dal contesto conciliare al punto da apparire persino quasi dei controrivoluzionari.
Tra l’altro, conoscendo bene il fiuto commerciale del leader Carlo Marrale, si potrebbe anche pensare che la loro devozione fosse molto più funzionale al mercato che non a una reale spiritualità. Ma queste, forse, sono cattiverie.

Costituitisi a Genova intorno al 1970 come quartetto e formati per 3/4 da quelli che saranno i futuri Matia Bazar, i J.e.t. esordiscono nel 1971 al "Disco per l'Estate" con un 45 giri di stampo melodico ("Vivere in te"), a cui fanno seguito altre due produzioni simili ("Non la posso perdonare" e "Il segno della pace") e nel 1972, un LP per la Durium, tanto progressivo quanto massicciamente venato da citazioni religiose.

Di fatto, sin dalla declamazione iniziale della title track ("Credi in Dio e in te stesso e spera nella carità degli uomini") l'ascoltatore viene immerso in un misticismo solenne che lo condurrà via via ad un punto di non ritorno.
Le atmosfere marcatamente progressive, si dipanano solide ed aggressive trasudando una maestosità che ben si sposa con le tematiche trattate nel testo e la compattezza sonora non lascia dubbi sulla qualità della produzione che, si dice, fosse stata miracolosamente effettuata su un registratore a 4 piste nell'arco di 6 giorni.
Il massiccio uso di distorsore sulla chitarra ed i riferimenti prog proseguono anche in "Il prete e il pescatore" ma, da questo punto in poi, le declamazioni spirituali cominciano a farsi davvero incombenti: "Prega Dio, prega Dio", "Mio Dio", "La croce lui portava ed il mondo salvava" e via discorrendo.

matia bazar jetLo stile vocale della band attinge prepotentemente dai New Trolls, mentre il groove spazia dall’ hard-blues al prog, senza trascurare momenti di ispirazione spiritual che, a ben guardare, sarebbero i più coerenti di tutto il contesto.

Da una sostanziale coazione al ripetersi e dalle infinite citazioni ai New Trolls si salvano solo i due brani centrali della seconda facciata ("Sinfonia per un Re" e soprattutto "Sfogo") che a parte il consueto proselitismo, possiedono perlomeno una dinamica pungente ed appetitosa.
Deep Purple in salsa New Trolls”, dirà un comunque un acuto osservatore di Progarchives.

In sintesi, pur se permeato di ottime intenzioni e realizzato molto accuratamente, “Fede speranza carità” diede comunque l’impressione di un lavoro concettualmente troppo invasivo e di questo se ne accorse anche il pubblico (credente e non) che lo relegò ai margini del mercato.
Infine, dopo una fallimentare esperienza a Sanremo nel 1973 col brano “Anikana-o”, i Jet si sciolsero.
Com’è noto, ben altro indotto avrebbero ottenuto nel 1974 Stellita, Marrale e Cassano reclutando l'ex Museo Rosenbach Giancarlo Golzi e la cantante Antonella Ruggiero per dar vita ai Matia Bazar.

Arti e mestieri: Giro di valzer per domani (1975)

Come abbiamo accennato nella scheda del loro primo album “Tilt”, il sestetto degli Arti e Mestieri si rivelò non soltanto uno dei migliori gruppi esordienti nel 1974, ma si ritagliò anche una solida nicchia tra i nomi di culto del pop italiano.
Questo, sia per la loro bravura tecnica, sia per un generoso coinvolgimento a livello militante che portò la band ad esibirsi nei maggiori circuiti controculturali (es: Festival del Parco Lambro 1974 e 1975 davanti a 45.000 persone) e supportare formazioni di spicco come la Premiata Forneria Marconi, i Gentle Giant e gli Area.

A testimonianza di questo percorso, segnaliamo che molto del materiale registrato dal vivo nel 1974 è stato pubblicato nel CD “Arti e mestieri live”, edito nel 1990 dalla Vinyl Magic.

Trascorso quasi un anno dalla prima prova su vinile però, era evidente che il gruppo sentisse il bisogno di oltrepassare le ingenuità dell’album d’esordio a vantaggio di un sound più compatto e di una maggiore comunicatività.
In altre parole: occorreva modernizzare il linguaggio in modo da evitare inutili ridondanze e compattarlo in un solo ed inequivocabile kernel timbrico. E questo è ciò che effettivamente accadde nel secondo lavoro della band, “Giro di valzer per domani”, pubblicato sempre per la Cramps nel 1975


Senza neppure averlo ascoltato difatti , si notano immediatamente alcune rilevanti novità rispetto al primo LP.

Innanzitutto, viene introdotto un cantante nella figura dell’ex Procession Gianfranco Gaza il quale, pur non avendo molto spazio all’interno del repertorio (i pezzi cantati sono solo tre), risolve quel senso di indeterminazione tipico di molte bands che, non avendo un vocalist di ruolo, si affidavano a turno ai loro strumentisti con la voce migliore.

In secondo luogo, salta subito all’occhio la maggiore parcellizzazione dei brani che questa volta sono quattordici - davvero tanti per un vinile -, tutti piuttosto brevi e ben distinti tra di loro, quasi a voler restituire più sensazioni possibile e contaminando con armonie Jazz e sinfoniche i classici stilemi del Rock Progressivo.
Una struttura quindi, che renderà praticamente automatica la pubblicazione di un 45 giri contenente le due tracce più rilevanti (“Valzer per domani / Saper sentire”) e rivolto con ogni probabilità, alla copertura di tutto il mercato possibile.

Infine, scorrendo i titoli, risulta anche più chiara la consapevolezza militante degli Arti e Mestieri, palesata da precisi riferimenti politici, sociali e persino ecologici quali: “Mirafiori” (in onore dell’importantissima vittoria sindacale che introdusse il “punto unico di contingenza” adeguando il salario al costo della vita), “Marylin”, “Aria Pesante” e “Dimensione Terra”.

Fatte salve queste premesse teoriche, va da se che in fase di auditing ci si trovi davanti a un lavoro molto comunicativo che, sin dalle sue prime note (“Valzer per domani”), risulta nel complesso estremamente organico.

Contrariamente a Tilt infatti, la band torinese ha acquisito ora un sound talmente solido, da farlo sembrare quasi un marchio di fabbrica. Le notevoli abilità di ciascun strumentista sono messe al servizio di un groove collettivo licenziando infine un prodotto personale e fortemente riconoscibile.

Pur se continuamente presenti, le parti soliste non sono mai invasive e mettono chiaramente in risalto la personalità artistica di ogni componente del gruppo. Magnifica la batteria di Chirico in “Sagra”, encomiabili Venegoni, Crovella e Vigliar in “Mescalero” ed estremamente performanti sono i fiati in “Dimensione terra”, imperniata su una ritmica funky.

L’unico neo rilevato dalla critica fu che i vari solismi non riuscirono mai a sintetizzare completamente i loro rispettivi ambienti (come invece accadeva negli Area o nel Perigeo), risultando spesso didascalici o freddi.
Questo naturalmente potrebbe non rappresentare un problema nel momento in cui considerassimo la musica degli Arti e Mestieri interamente codificata ma, supponendo invece che vi fossero realmente delle parti improvvisate, queste non riuscirono mai ad elevarsi oltre l’organicità della base, iniettando nel disco un certo senso di pesantezza.
Malignamente, alcuni addetti ai lavori ritennero l’album addirittura “sfiancante”.

Di questo limite comunque, si accorse anche il gruppo che, senza tralasciare l’impegno politico, si aprì gradualmente a una maggiore immediatezza sonora (es: “Quinto stato”, 1979) ma senza più Venegoni e Gallesi che se ne andarono per formare rispettivamente la “Venegoni & Co” e gli “Esagono”.

Riformata più volte sempre sotto la guida di Chirico e Crovella, la band è tutt’ora in attività.