AUTONOMI, AUTONOMIE e il sogno di una galassia fragile. - Seconda Parte
Nella prima parte del post abbiamo evidenziato come a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, il pensiero autonomo diffuso avesse coinvolto tutta la società italiana (politica, informazione, istruzione, sanità, giustizia, economia, tempo libero e gestione del territorio) al punto di modificarne profondamente le coordinate culturali, artistiche e di riflesso, anche la musica rock. Distogliendola ad esempio dal manierismo verboso che aveva caratterizzato la sua fase progressiva, limando certe tortuosità del primo cantautorato e indirizzandola verso un linguaggio più schietto e comunicativo.
Per farlo, si rivalutarono la tradizione popolare, l'immediatezza dei primi canzonieri politici e comunque si optò sempre per la maggiore linearità possibile nel rapporto tra artista e ascoltatore.
Certamente, questa semplificazione non fu sempre un pregio perché non di rado trascese in banalità, ma è anche vero che, proprio per evitarlo, molti autori affinarono sempre di più la loro loro poetica distanziandosi dai luoghi comuni, contaminando, sperimentando soluzioni ancora inedite e producendo spesso opere di grande valore.
Di questo ed altro parleremo più specificatamente nella terza e ultima parte del post dedicata alla musica, ma per ora, - per capire meglio il contesto storico in cui avvennero le trasformazioni di cui sopra - vediamo come nacque e come si sviluppò la cosiddetta “autonomia diffusa”.Il concetto di "autonomia", concepito durante l'autunno caldo del 1969, si conclamò nel 1973 durante l'occupazione dello stabilimento di Fiat Mirafiori dove, accanto ai metalmeccanici in lotta, comparve un nuovo soggetto operaio dalle modalità rivendicative totalmente avulse dal comunismo storico e dall'ideologia compromissoria della ricostruzione.
Erano giovani proletari di cui molti immigrati dal Veneto o dal Sud, provenienti dai collettivi o dai consigli di fabbrica, che riversavano tutti voti sul Pci, ma che a differenza dell'operaio "socialista e colaborativo", erano caratterialmente spontanei, decisi e radicalmente refrattari a qualunque dialogo con le forme di rappresentanza tradizionale, cioè partiti e sindacato.
La stampa li chiamava i “fazzoletti rossi", o anche il “partito di Mirafiori” per sottolinearne la consistenza numerica, o più semplicemente “Autonomi”.
Inizialmente circa 20.000 compagni (ancora poche le donne) che, dando per persa la lotta di classe all'interno delle grandi fabbriche ormai in odore di ristrutturazione, iniziarono a spostare il conflitto nelle città, allacciandosi con straordinaria rapidità alle realtà antagoniste già esistenti nei vari quartieri.
Un movimento dal portato eversivo enorme quindi, ma che non annoverò più
soltanto studenti, anarchici, donne e libertari come era accaduto nel
'68-'69, ma un'imponente galassia composta da circoli, centri sociali,
comitati di quartiere, associazioni, cooperative, commercianti,
piccoli imprenditori, e soprattutto da quelle decine di migliaia di
giovani nati e cresciuti per vent'anni nello squallore delle
periferie metropolitane, e che ora volevano riprendersi in mano la vita. E lo fecero.
Cominciava
così l'era del “tutto e subito”, del “personale è politico” e del “riprendiamoci la vita e le città”, che a quel punto non erano più semplici
slogan, ma obiettivi politici e modelli di vita condivisi da milioni
di persone. Quindi in grado di smuovere non solo un gigantesco bacino
di voti, ma di evolversi continuamente anche a costo di sovvertire dall'oggi al domani le sue stesse modalità relazionali.
Tuttavia, se questa “democratizzazione delle lotte” fece del triennio73-75 uno dei periodi più prolifici e significativi della nostra storia contemporanea, è altrettanto vero che le lacerazioni prodotte dal pensiero autonomo in seno al comunismo storico e alla Controcultura, non si rimarginarono più. Come dimostrò il disastroso Festival del Parco Lambro del 1976.
Ma il problema maggiore, quello che provocò veramente più danni che benefici, fu che a tanta euforia rivoluzionaria, spesso sin troppo ossessiva, non corrisposero né un'organicità condivisa, né un'ideologia sufficientemente omogenea da compattare tutta quell'immensa matassa di forze in gioco.
E mentre i contributi di
intellettuali raffinatissimi quali Negri, Piperno, Guattari, Bianchi,
Berardi e Spazzali venivano recepiti solo parzialmente, o comunque
messi regolarmente in discussione (cosa che non accadde nel 68 quando gli intellettuali erano rispettatissimi e anzi, quasi venerati), quel sincero ma disordinato
spontaneismo che molti anarco-luxemburghiani credevano bastasse a
costruire nuovi equilibri, si rivelò invece il loro peggior nemico.
Il
confine tra intuito ed azione divenne talmente sottile da rendere
alcune pratiche improprie o avventate, e questo (forse) fu il limite
principale che causò la sconfitta del successivo Movimento del 77:
ultima propaggine dell'Autonomia storica, apripista di una fase rivoluzionaria successiva e, se vogliamo, anticamera
del Punk Italiano di cui vi rimando all'ottimo libro di Carlo Pescetelli "Lo Stivale è Marcio". Ma di questo avremo modo di discuterne ancora.
Questa in poche righe la sintesi di come si sviluppò l'Autonomia, mentre di come si ripercosse sul rock e sulla musica in generale, lo vedremo nella terza ed ultima parte del post.
Per chi volesse approfondire il discorso, consiglio il sito Autistici nella sezione di Derive / Approdi e la pagina "musiche" dell'Archivio Autonomia dove troverete alcuni contributi di Gianfranco Manfredi, Romano Madera, Claudio Lolli ed Eugenio Finardi.
3 commenti :
Bellissimo articolo, inappuntabile ed esaustivo come sempre !
Michele D'Alvano
concordo con michele bellissimo articolo bravo john sei come il buon vino più invecchi e migliori sempre più!!!
ugo caputo
Mi aggiungo, caro John. La tua capacità di ricerca e riproposizione dei fatti è la cultura che spesso latita oggigiorno. Sacrosanto dunque il lavoro di divulgazione e storicizzazione che sai sempre proporre. Lunga vita !
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