Il movimento del '77 - parte seconda
Nel 1976, alla già consumata divisione tra il Movimento Operaio storico (PCI e sindacati) e l’Autonomia, si aggiunse anche un’insanabile frattura tra la Controcultura e una nuova generazione di soggetti politici formata per lo più da ex militanti, disoccupati, precari, donne e da tutti quei giovani nati nei ghetti-suburbani negli anni ’50, che ora si stavano riappropriando dei loro spazi attraverso la creazione di circoli autogestiti in provincia (i “Circoli del Proletariato giovanile”) e decine di occupazioni nel cuore della città.
Una linfa dissidente del tutto nuova che non solo sconvolse i politologi, la stampa e gli stessi militanti del PCI, ma rivoluzionò completamente l’approccio creativo alle problematiche sociopolitiche.
Sintetizzato ai minimi termini, il percorso era chiaro: vista l’impossibilità di portare il Partito Comunista sulla “retta via rivoluzionaria”, e preso atto che la stagione dei gruppi extraparlamentari volgeva al termine (il colpo di grazia sarebbe arrivato con il fallimento elettorale del 20 giugno 1976), occorreva “personalizzare il politico” attraverso il diretto coinvolgimento di tutti gli attori in gioco.
La teoria funziona e già a partire dal 1975, migliaia di giovani in tutta Italia iniziano a coordinarsi generando quella che Asor Rosa chiamò la ”seconda società”, definizione che coglie in pieno la tormentata complessità della nuova stagione antagonista.
Sul fronte del lavoro ad esempio, all’interno di un sistema che stava mutando dalla fase industriale a quella terziaria (automazione, informatizzazione), si delineò una nuova classe lavoratrice che cercava di ritagliarsi una propria identità che non fosse né quella militante tipica dell’operaismo storico, né tantomeno quella precaria imposta dal nuovo sistema.
Linee dichiarate: rifiuto della dialettica con la ristrutturazione capitalista, decentramento nel sociale delle forze produttive, lotta al lavoro nero, sperimentazione di fonti alternative al reddito fisso e possibilità implicita della conoscenza tecnologica.
Appartiene a questa fase storica il cosiddetto “rifiuto del lavoro”, inteso come fuga dal lavoro salariato (anche a costo dell’autolicenziamento) per inserirsi in maniera inventiva, intellettuale e dinamica nei nuovi modi di produzione, creando saperi spontanei inediti e abbattendo così il radicato concetto operaista secondo il quale i "marginali" erano coloro che non lavoravano in fabbrica.
Ora, data la complessità di queste premesse, era chiaro sin già dai primi mesi del ’77 che il raggio d’azione del neonato movimento avrebbe dovuto estendersi sino a mettere in discussione non solo il lato produttivo e occupazionale della società civile, ma anche tutto il resto: istruzione, formazione professionale, famiglia, sanità, cultura, comunicazione.
Se quindi il mondo stava diventando un libero insieme di flussi produttivi e informativi, per evitare che il potere li assorbisse, li riproducesse e li riorganizzasse generando così nuove forme di sfruttamento, occorreva rapidamente appropriarsi di nuove tecniche di produzione e di comunicazione e, sotto questo aspetto, il ’77 fu uno degli anni più straordinariamente dinamici mai visti in Italia.
A parte il fenomeno della liberalizzazione dell’etere cominciato già due anni prima, lo stesso stile dei modelli di diffusione cartacea venne reinventato sul modello dell’Underground a favore di una comunicazione più spontanea e diretta. Il concetto di “festa” perse il suo vecchio valore ideologico e nell’ottica di “uscire dal ghetto” si tramutò in veri e propri happenings metropolitani.
L'estetica degli attori creativi (ricordiamo gli "Indiani metropolitani", i Gay, le Femministe, ma anche i primi Punx) sarà una delle più fantasiosamente autorappresentative mai percepite dagli anni del Beat.
Anche sul versante dell’istruzione e del diritto allo studio, la lotta per la rideterminazione delle regole del potere fu condotta in maniera multipla tra dibattiti, assemblee, cortei ed occupazioni che coinvolsero praticamente tutte le realtà politiche e creative esistenti.
Sinteticamente, alcuni dei diritti reclamati erano: libero piano di studi, garanzia di spazi autogestiti in cui poter ridiscutere qualsiasi istanza senza preclusione alcuna, apertura serale degli atenei fino alle 22 (funzionale alla reintegrazione dei licenziati e all'acquisizione di quel nuovo "know-how" di cui abbiamo parlato prima), liberi corsi per i lavoratori e voto garantito.Tutto questo, mentre nelle strade e nelle piazze urbane si susseguivano senza sosta feste, manifestazioni spontanee, cortei organizzati contro la droga, il caro affitti, i manicomi, la repressione e il fascismo di Stato e la disoccupazione.
Una centrifuga rivendicativa enorme che ebbe nelle sue espressioni antagoniste anche risvolti altamente aggressivi.
Una violenza che al di là dei giudizi morali, politici o sulla sua evitabilità, fu sicuramente il frutto di un duplice errore strategico.Da un lato, come osservò Scalzone, essa fu la risultante di una coesione mai perfettamente cementata in cui “la perdita della dimensione politica collettiva, spinse ad un’autovalorizzazione immediata”, traducendo spesso l’antistituzionalismo in lotta armata.
Dall’altro, secondo un’acuta osservazione di Negri si commise la leggerezza di “liberalizzare ancor prima di democratizzare” o comunque (e questa è una mia considerazione), di non aver “democratizzato in tempo” ciò che si era liberalizzato, permettendo così al potere di controllare, reprimere e riassorbire tutte le istanze rivendicative sin dal momento in cui erano state messe in atto.
Ecco perchè, il 1977 non poté che esaurirsi in una repressione poliziesca senza precedenti (quarantamila denunciati, quindicimila incarcerati, quattromila condannati e una tragica scia di morti) e non trovò sbocchi neppure nel convegno conclusivo di Bologna nel settembre del 1977, dove tutte le aspettative di ricomposizione caddero nel vuoto.
Gli “ultimi fuochi”, ormai inesorabilmente ramificati in direzioni contrastanti, si spegneranno in capo a pochi anni lasciando l’Italia tra le luci e le ombre di una controrivoluzione destinata a durare a lungo.
Si chiude così, con un’inquietante serie di domande senza risposta che prelusero al riflusso degli anni ’80, la più grande stagione creativa e desiderante del dopoguerra italiano.
Una stagione anche dura e impietosa. Una di quelle in cui persino la violenza fu la risposta adeguata al sogno di un mondo migliore.
“Il giorno dopo”, disse De Andrè, “ c’erano i segni di una pace terrificante”
PARTE TERZA
12 MAGGIO 2010
DEDICO QUESTO POST A GIORGIANA MASI, 19 ANNI.
UCCISA INNOCENTE DALLA VIOLENZA DI REGIME
A ROMA IL 12 MAGGIO 1977 ALLE ORE 19.45.
CIAO DOLCE SORELLA.
12 commenti :
E poi primavera, e qualcosa cambiò
Qualcuno moriva, e su un ponte lasciò
Lasciò i suoi vent’anni e qualcosa di più
E dentro i miei panni, la rabbia che tu
Da sempre mi dai, parlando per me
Scavando nei pensieri miei,
Guardandomi poi dall’alto all’ingiù
E forse io valgo di più...
L'"epitaffio" di De André lo ritengo un favore personale.
Sul rapporto fra movimento e PCI faccio mie le parole di Sbancor (da "Settantasette - la rivoluzione che viene" Ed DeriveApprodi)
" Pasolini è sicuramente il più grande scrittore reazionario italiano. Il suo elogio del'Italia povera ma bella è quasi un invito al mantenimento della povertà. (...) Qualcosa del genere passò nella testa dei dirigenti del PCI nel 77, l'austerità. Sommessamente provammo a dire che la libertà nasce da bisogni umani ricchi, qualcuno di noi si spinse a sostenere il diritto al lusso. Finì a sassate".
Qualcuno ha ricominciato a chiedere "austerità" in Grecia...
Se posso permettermi, mi sembra che chi ha scritto quelle parole non abbia capito niente di Pasolini. "Reazionario"... ma per favore. Allora se voglio preservare e difendere l'ambiente allora sono reazionario pure io. Ma per favore...
Senza contare che PCI e Pasolini avevano pessimi rapporti, visto che quest'ultimo fu espulso dal partito con il pretesto di un'accusa infondata.
Dovic86, hai traslato il concetto di "reazionario". Devi considerare il resto del discorso di Sbancor.
Ivan, riguardavo giusto oggi il finale Shaekspeariano di "Cosa sono le nuvole" di Pasolini.
Mi toccava la contraddizione tra l'uso della forza operaia e il suo smantellamento.
Le maschere inconsapevoli vengono spremute fino al midollo sintanto che servono e poi buttate in discarica dove solo lì, colgono la meraviglia del creato.
E' quasi una lezione di storia, non è vero?
Quello che intendevo dire è che Pasolini non auspicava un mantenimento dello status quo e della povertà negli strati sociali più bassi. Questa è un'accusa che gli veniva mossa già quand'era invita e che ogni tanto rispunta fuori, ma secondo me è errata. Lo stesso Pasolini aveva più volte sottolineato come si dovesse distinguere tra progresso e sviluppo, tra conquiste sociali, umane, rivoluzionarie e semplice accrescimento dei capitali, foraggiamento ed espansione dell'industria borghese. Quel che Pasolini cercava di salvare, di preservare, non era certo la povertà, l'accettazione della propria condizione sociale, bensì la parte più autenticamente umana dei sottoproletari. Intento utopico quanto vogliamo, ma non reazionario, controrivoluzionario o di destra, secondo la concezione che ho io della parola "reazionario". Se poi Sbancor intendeva un'altra accezione del termine, allora ho capito male.
Non riesco a avere nostalgia per quegli anni e per la cosidetta "controcultura" che, tra l'altro, dal punto di vista musicale ha di fatto bloccato la scena italiana facendola, a mio avviso, addirittura regredire
La nostalgia è uno stato d'animo delicato che può diventare dannoso.
Meglio una sana presa di coscienza.
Quale scena però secondo te avrebbe bloccato, o fatto regredire, la Controcultura? E perchè?
Spiegati meglio.
Sono d'accordo con Bounty: neanch'io ho nostalgia per quegli anni, anni disperati, cattivi e...rozzi.
A differenza del '68, allegro e utopistico, il '77 fu, per forza di cose, nella maggioranza dei casi solo rabbia impotente e spesso orgogliosamente ignorante...nel '68 si sognava la gioiosa presa del potere, nel '77 si cercava solo di vendere cara la pelle... le parole non venivano più articolate e venivano spesso sostituite da stereotipi verbali privi di senso, spesso la leadership comportava il cinismo, l'insensibilità e l'inumanità...in altre parole,la mediocrità.
Non fummo all'altezza culturale che il livello dello scontro avrebbe richiesto...e questi balbettii ebbero come logica conseguenza il nichilismo impotente del terrorismo....
Ok, però ricordiamoci che tra il 68 e il 77 ci sono otto anni e diverse soglie storiche che hanno definito periodi molto diversi tra loro.
Passino i disastri del '77 che comunque ha avuto anche molti lati positivi, ma accorpare in una sola sentenza 10 anni di storia mi sembra una leggerezza antistorica.
Ultima cosa: si tenga presente che la "Controcultura" nell'accezione di Andrea Valcarenghi (che poi è quella utilizzata in questa sede, è finita nel '76.
"io non ho cultura
ma non voglio stare male
che si arrangi chi ha paura del caviale"
Alberto Radius - Nel ghetto(1977)
La frase era provocatoria ovviamente. Nella parte omessa della citazione si diceva che non è possibile non amare Pasolini o non amare Celine. Diciamo che il discorso di Pasolini sulla "scomparsa delle lucciole" è aperto a diversi significati. Il punto che volevo sottolineare a proposito del 77 era l'opposizione all'austerità, all'etica del sacrificio e del lavoro per il lavoro (del PCI non di Pasolini).
Per altro vendere cara la pelle a volte è l'ultima cosa che resta, come nei romanzi di Cormac McCarthy ( "La strada" o "Meridiano di sangue" non annoiano per nulla...).
Visto come vanno le cose oggi in europa non è da sottovalutare la possibilità che il miliardario ci chieda qualche sacrificio aggiuntivo... ognuno poi si comporterà come ritiene giusto.
"forse il tempo del sangue ritornerà...", diceva Fortini.
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