Battiato: Foetus (1974, pubb. 1999)


Battiato Foetus 1974
 Verso la fine del 1973, la casa discografica Island Records con sede nel cuore di Londra, era un vulcano in eruzione. 

In ottobre aveva pubblicato INSIDE OUT di John Martyn, a tutti gli effetti il suo disco più raffinato, BURNIN’ di Bob Marley, la cui Get Up Stand Up, fu insignita del disco d’argento e, poco dopo, l’eccellente STRANDED dei Roxy Music che raggiunse il primo posto delle classifiche inglesi. 
E nei primi mesi del 1974, fu la volta di Seven Deadly Films, il primo singolo di Brian Eno. Ancora un po’ acerbo invero, ma comunque sia, l'esordio di colui che ancora oggi viene considerato uno dei massimi innovatori del rock. 
 
Una serie di soddisfazioni notevoli quindi, per la label dell’allora trentaseienne Chris Blackwell, che non solo gli valsero una valanga di encomi, ma lo spinsero a cercare ulteriori talenti. 
Cosa che fece, e tra coloro che approdarono alla sua corte, (The Sparks, Bryn Haworth, Ronnie Lane e il mitico jazzista Georgie Fame), ci fu anche il nostro Franco Battiato, all’epoca fresco di Sulle Corde Di Aries. 
In Inghilterra un perfetto sconosciuto, ma che con le sue sperimentazioni aveva conquistato il cuore del boss di Notting Hill. 

E anche se il collega Giordano Casiraghi, sostenne che Battiato avesse già tenuto un concerto in terra d’oltremanica, precisamente a il Coventry il 13 settembre 1973, pubblicizzato, come “… an artist from Europe (Italy). Featuring vanguard Music Moog Synthesizer", si trattò sicuramente un evento sporadico. 

Invece, il buon Chris Blackwell, che aveva già ascoltato tutta la sua produzione, ed era rimasto affascinato particolarmente da FETUS, aveva per lui dei piani molto circostanziati e a lungo termine: un disco subito, e una prima tournee di sedici date ad altissimo livello tecnologico, e a fianco di tre monoliti dell’avanguardia cosmica: Magma, Ash Ra Tempel e Stomu Yamash’ta.
 
Battiato Clic Island records
Un tour straordinario  in cui il nostro avrebbe utilizzato “nove casse ad alta fedeltà comandate da una sofisticata centralina elettronica” (tipo l’azimut dei Pink Floyd), e avrebbe esplorato nuove e fantastiche sensazioni.

Prima mossa quindi, e siamo all’inizio del 1974: registrare la versione inglese di FETUS (cosa che avvenne presso gli Island Studios di Basing Street.), pubblicarla, e infine promuoverla non appena Franco avesse terminato le registrazioni del suo nuovo album CLIC

Un planning perfetto quindi, peccato che andò tutto a scatafascio.

Perché, se le basi di  FOETUS (questo il titolo della versione inglese) non diedero problemi, trattandosì perlopiù di quelle italiane leggermente rimaneggiate, la voce e i testi presentarono delle criticità macroscopiche.

Una pronuncia aberrante innanzitutto, e dei testi tradotti talmente alla lettera che neppure con tutta la buona volontà sarebbe stato possibile definire accettabili. 

E questo perché, se da un lato la rigidità della traduzione aveva prodotto un inglese irreale, in fase di trasposizione  si perse anche tutta quella raffinata fluidità fonetica che connotava invece i testi italiani

 Così, la splendida intro di Energia

Franco Battiato in English “Ho avuto molte donne in vita mia /  e in ogni camera ho lasciato qualche mia energia”

diventava un’orrenda e impronunciabile 

 “I bought a lot of women in my life / On all the beds I left a lot of sweat”, 

 mentre il cuore concettuale del brano 

 “Se un figlio si accorgesse che per caso /
è nato fra migliaia di occasioni / 
capirebbe tutti i sogni che la vita dà / con gioia ne vivrebbe tutte quante le illusioni.” 

venne massacrato in 

“If a child undesrstood that by chance / 
it is born a chance in a million / 
he would understand all the dreams that life offers / 
 he would live each illusion full of life, full of confusion”. 

Non oso neppure immaginare cosa pensò Chris Blackwell quando ascoltò quei provini da lui tanto agognati, ma di certo gli bastò per mettere una pietra sopra il progetto FOETUS, e non volerne parlare mai più. 

Per sostituirlo si inventò una versione ibrida di CLIC che vide la luce verso fine anno, e il 13 febbraio 1975, Battiato partì finalmente per  il sospirato tour inglese
Anzi, il “disastroso” tour inglese, come lo definì lui stesso. 

Pubblico ubriaco che lo scambiava per un tecnico di sala, gradimento a fasi alterne, e peggio che mai, un grave incidente d’auto che, dopo il concerto del 23 febbraio alla Roundhouse di Londra, lo costrinse a rimpatriare anzitempo.

Saltarono così tutte le undici date con Stomu Yamash’ta, l’Inghilterra rimase un brutto ricordo, la sua lingua anche, e a giudicare dalla versione inglese della hit Up Patriots To Arms (circa 1980) non mi sembra che Franco abbia fatto molto per migliorarsi.

O forse, non gli interessava neanche...

Lucio Battisti: Images (1977)
Premessa. Gli italiani e l'inglese.

LUCIO BATTISTI IMAGES 1977
L’Italia - come sappiamo - ha sempre avuto un'attrazione speciale per l'America. Per effetto di quel Piano Marshall che le permise di rialzarsi dopo la seconda guerra mondiale, per quel suo mercato sempre debordante di dollari e di opportunità, ma anche per la straordinaria seduttività dei suoi miti. Sia quelli innocui, che quelli che cambiarono il mondo. 

Questo interesse, dicevo, iniziò nel 1945, subito dopo la liberazione, quando conoscemmo i chewing gum, le Camel e la Coca Cola, proseguì lungo gli anni Cinquanta con l'arrivo del Rock'n'Roll, e si consolidò negli anni Sessanta con il contributo decisivo della british invasion e della swinging London

Erano tempi in cui atteggiarsi ad angloamericano faceva figo, piazzare una hit negli States o in Inghilterra significava entrare nella leggenda, e anche se qualche superstar d'oltremanica si cimentò con la nostra lingua (ricordiamo Stevie Wonder, David Bowie e Sandy Shaw), il trend rimase sempre a senso unico. Eravamo sempre noi a imitare gli inglesi, mai viceversa. E del resto, con un patrimonio conflittuale ridotto al minimo e abbarbicati come cozze al melodico ottocentesco, cos'altro avremmo potuto fare? Nulla. 

Ci convincemmo così che l'inglese poteva davvero nobilitarci, tentammo in tutti i modi di dimostrarlo e infatti, almeno la metà del nostro beat fu composta da brani tradotti. Alcuni bellissimi come Ragazzo di Strada dei Corvi, o Per vivere insieme dei Quelli (rispettivamente I Ain't No Miracle Worker dei Brogues, e Happy Together dei Turtles), altri meno come Corri Uomo, Corri, dei Giganti, versione italiana di Space Oddity

DEMETRIO STRATOS DADDY'S DREAM
Malgrado gli obbrobri però, i successi prevalsero.

Economicamente, italianizzare le canzoni rendeva e conveniva, a volte gli ascoltatori non si rendevano nemmeno conto che certi brani fossero delle cover, e il fenomeno proseguì anche nel decennio del grande rock, del pop e del cantautorato. Gli anni Settanta.

E se nessuno pensò mai di tradurre Whole Lotta Love, Smoke on the Water o The Musical Box, il virus albio-americano contagiò nuovamente tutti i protagonisti del nostro panorama musicale. Ma qui cominciarono i problemi. 

Perché, se negli Sessanta l'Italia era ancora molto ingenua in fatto di lingue straniere, per cui molte imperfezioni passavano in secondo piano, la proliferazione delle radio indipendenti, la massiccia diffusione delle hit d'oltreoceano e d'oltremanica, e una maggiore attenzione del pubblico per certi dettagli (testi, immagine, contenuti, slang, pronuncia ecc), resero i nostri limiti tragicamente evidenti. 

E non parlo di artisti quali Stratos, Finardi, Tofani, Branduardi, Sorrenti, De Scalzi o Lanzetti che l'inglese lo sapevano e  lo parlavano alla perfezione, ma di coloro che vollero cimentarsi per moda o per forza con una lingua che proprio non faceva per loro. 

Per esempio, il Rovescio della Medaglia, il cui album Contamination fu – credo - tra i punti più bassi delle nostre produzioni in lingua (al punto che molte parti corali, diciamo così, un po’ "borgatare" vennero stemperate da tonnellate di riverbero), Il Balletto di Bronzo, la cui versione albionica di YS lasciò molto a desiderare, e gli Osanna i cui tre brani in inglese del loro primo album accusavano una sintassi molto migliorabile

EDOARDO BENNATO ROCK N ROLL HEROE infine, gli Alluminogeni la cui Cry for me (= L'alba di Bremit) fu giustamente ritenuta dalla stampa specializzata, "a pitiful exercise". Mi riprometto di chiedere dettagli al mio amico Patrizio.

Tra i cantautori / solisti invece, ci fu Edoardo Bennato, che rilesse in anglo-partenopeo l’originale e stupenda Cantautore, Ivano Fossati che con un flow un po' cementato cantò le sue  Where Is Paradise e Harvest Moon in Indiana Goodbye, e il compianto Franco Battiato, il cui inglese davvero aberrante tolse a Foetus qualunque speranza di essere pubblicato.

E se quelli che ho ascoltato personalmente erano veramente dei provini di un De Andre’ d'oltremanica, allora è davvero meglio che siano rimasti inediti. 

Negli anni Settanta però, tutti i riflettori erano puntati su Lucio Battisti, al punto che qualunque cosa dicesse, facesse o cantasse, sollevava un polverone mediatico senza precedenti. 

E questo accadde anche con Images, il suo primo e unico album in inglese. Un disco che ebbe una gestazione difficile, che gli procurò più dolori che gioie, e che (forse) sarebbe stato meglio abortire in tempo. 

A risentirci nella seconda parte.

1971-1973 - Woodstock in Brianza. Il post di Mary Nowhere.

 

C'è stato un periodo della nostra storia in cui la Brianza, quindici anni prima di diventare la culla del neonazismo lombardo-veneto (per usare un'espressione di Franco "Bifo" Berardi), ospitò il fior fiore dell'alternativa italiana.

Più specificatamente, le prime tre edizioni del RE NUDO POP FESTIVAL a Ballabio (1971), a Zerbo (1972)  e all'Alpe del Vicerè (1973), che davanti a migliaia di persone, videro esibirsi artisti mitici e seminali del prog quali Area, Duello Madre, Garybaldi, Nuova Idea, Banco, Dedalus,  Battiato e Aktuala.

 Due anni fa, la blogger Mary Nowhere ne ha stilato un dettagliato ricordo, sia dal punto di vista geografico che da quello emozionale, che oggi vi consiglierei davvero di leggere.

Per arricchire la vostra sensibilità, per fare tesoro dei sogni passati, e per spingervi ancora verso nuove immaginazioni.

New Trolls: Ut (1972)

new trolls ut 1972Se non fosse per l'imminente ciclone che di lì a poco avrebbe devastato lo storico gruppo genovese, potremmo definire il loro quinto ellepì "Ut", uno dei meglio riusciti della loro produzione.
Purtroppo però, tutte le meraviglie che appaiono in quest'album si presenteranno all'ascoltatore quasi a comporre un epitaffio la cui stesura era già iniziata da qualche tempo.
 

Vittorio de Scalzi per esempio, dopo un momentaneo abbandono del gruppo decide definitivamente di rinunciare al suo storico ruolo di autore e di comparire solo come chitarrista, lasciando quindi carta bianca a Di Palo, Belleno, Laugelli e Maurizio Salvi, già collaboratore del gruppo all'epoca del singolo "Una Storia". Per inciso, il brano di Sergio Endrigo che i new Trolls portarono a Sanremo nel 1971 perché gli Alluminogeni si rifiutarono di farlo! "Non volevamo far perdere Endrigo", mi confidò personalmente Patrizio Alluminio. E aveva ragione.)

Malgrado gli attriti comunque, il sound che esce da "Ut" è sorprendentemente variegato e brillante quasi come se il gruppo, già conscio del suo futuro, volesse rilassarsi senza calcare troppo la mano sulle implicazioni della loro imminente separazione.

Già dal titolo (Ut è l'antico nome della nota "Do"), si capisce che la band voglia concentrarsi solo sulla musica: intenzione che nella pratica sarà mantenuta restituendo in otto brani tutte le sfaccettature musicali appannaggio dei musicisti.

Si comincia con una rielaborazione di Salvi di uno studio per piano di Johann Baptist Cramer per entrare senza soluzione di continuità in un breve ma infuocato prog-rock di marcato sapore fusion ("XII Strada").

 
Fin qui, la coesione della band è probabilmente la migliore che si possa ascoltare da "Concerto grosso" e la successiva prog-song, "I cavalieri del Lago d'Ontario" (testi: Laugelli, voce: Di Palo), non è solo una conferma di questo evidente stato di grazia, ma supera addirittura ogni aspettativa restituendo uno dei migliori brani in assoluto del quintetto.
Ancora una volta, viene da chiedersi come una formazione del genere stesse per dividersi.

 
ut 1972 new trollsSe "Storia di una foglia" e "Nato adesso" rispecchiano rispettivamente le due anime contrapposte di De Scalzi e Di Palo, riportando il disco su una dimensione più soffice, la dignitosa "Nato adesso" ci catapulta nella seconda perla di questo disco,"C'è troppa guerra," che è di fatto un micidiale cocktail di hard-rock e unplugged a mezza via tra le cose migliori dei Led Zeppelin e dei Black Sabbath.
 

In dieci minuti di compattezza granitica i New Trolls mettono in riga tutte le altre formazioni che si sono cimentate nell'hard, o che avrebbero appena voluto imitarli. Personalmente, trovo che in questo brano la voce di Di Palo raggiunga uno dei suoi massimi vertici espressivi.
Con grande raffinatezza segue poi una ballata pop soft di stampo "estivo" ("Paolo e Francesca"), nobilitata da un particolarissimo assolo di chitarra ma complessivamente non proprio imprescindibile.
Chiude l'album
la struggente "Chi mi può capire" che completa il vasto catalogo di umori che hanno attraversato il long playing e che, insieme ai "Cavalieri del lago di Ontario", si contende il titolo di miglior brano di Ut.


new trolls dal vivoSulle ultime malinconiche note di pianoforte, calèrà infine il sipario sulla prima grande epopea dei New Trolls.
In poco meno di sei mesi De Scalzi abbandonerà definitivamente gli altri per dar vita a una sua casa discografica (la "Magma") e costituire con D'Adamo gli NTAtomic System.

 

Di Palo formerà gli gli Ibis con Belleno, il quale a sua volta fonderà successivamente i Tritons.
Infine, nel 1976, proprio grazie a Gianni Belleno, nel frattempo tornato con De Scalzi, il gruppo originale si ricompatterà ma con obiettivi più votati al commerciale. Musica di classe s'intende, ma pur sempre Pop.


Malgrado la vacillante situazione del gruppo, "Ut" vendette piuttosto bene, al punto che furono in molti a caldeggiare i due leaders di restare insieme. La stroria però era già scritta.
Data la vastità di inputs e di riferimenti, la critica fu ovviamente divisa sul suo effettivo valore.
Da un lato c'è chi lo considerò un collage non particolarmente innovativo e neppure troppo omogeneo, per non dire "discontinuo e inconcludente", dall'altro non furono in pochi a considerarlo un disco quasi miracoloso (considerando la situazione) e di gran lunga superiore ai precedenti Concerto Grosso e Searching for a land.
In questo caso probabilmente la verità sta nel mezzo e, personalmente, amo pensare a questo disco come un valido compendio delle capacità della band che perlomeno, premiò una
una breve ma ritrovata conflittualità.

Maurizio Fabrizio: Movimenti nel cielo (1978)

Maurizio Fabrizio, Movimenti nel Cielo, 1978
Siamo nel 1978, e ci sono due o tre caratteristiche peculiari che distinguono questo secondo Lp del polistrumentista milanese Maurizio Fabrizio (all'epoca arrangiatore di Angelo Branduardi), da tutta la vecchia scuola rock, fusion e progressive italiana. 

Innanzitutto, l'impressionante levigatezza dell'esecuzione. Sound e struttura perfetti, non una nota fuori posto, abbellimenti e contrappunti che surgelano il pentagramma con precisione chirurgica, e una resa acustica pari una demo della Deutsche Grammophon. 

In più, un'ortodossia tecnica e produttiva talmente calcolata, da escludere non solo qualunque immaginazione, ma da renderla persino superflua.

L'esatto opposto insomma, di ciò che accadeva nel rock progressivo italiano e nelle sue digressioni jazz (Baricentro, Arti e mestieri, Living Life, Bella Band ecc.), là dove la musica evocava sensazioni e panorami arcani e cangianti, ed anche le imperfezioni avevano un loro senso. Quello di ricordarci che siamo pur sempre esseri umani, e la comunicazione passa anche attraverso gli sbagli, gli imprevisti e l'improvvisazione. 

Un po' come quelle geniali trovate in fase di registrazione che nel biennio Sessanta/Settanta venivano considerate, se non proprio irrinunciabili, perlomeno "caratteristiche": i nastri al contrario, gli altoparlanti tagliati, i chiodi sul rullante, le voci impreviste come la risata di Syd Barrett, e via dicendo. 

Maurizio Fabrizio
In "Movimenti nel Cielo" invece, è tutto perfettamente dosato, cesellato e servito. Come la title track che avrebbe potuto essere stata composta indifferentemente da Vangelis, da Barry Gray o da John Williams. Oppure quella "Sputnik Suite" che, infarcita di tecnicismi sino al midollo, sembra volersi dare un'importanza che in realtà non ha, né rivestirebbe altrove.

 Sopravvive si, qualche sapore antico, come in quella Movenze degli Anelli di Saturno che a tratti ricorda lo storico assolo di Keith Emerson in Stones of Years, ma più si procede nell'ascolto (Episodio Lunare), e più si ha l'impressione di trovarsi nell'aula di un conservatorio. Sensazione piacevole per uno studente, ma non per chi, dopo anni di beat, mod e rock, confidava ancora nel punk per resistere a una società sempre più divisiva. 

Così, una volta concluso l'ascolto, "Movimenti nel Cielo" appare un'opera inesorabilmente divisiva: troppo classica per essere pop, e troppo pop per essere classica. Per nulla convincente quando cerca di enfatizzare le parti più ritmate, facendole assomigliare a dei brani da discoteca (del resto, siamo o non siamo in piena era disco?), e persino verbosa là dove certe sovraincisioni la fanno sembrare un outtake di Mike Oldfield

Ma non vorrei sembrarvi troppo severo. 

Siamo pur sempre al cospetto di un arrangiatore eccezionale (e si sente!), dell'Orchestra della Scala di Milano, e di musicisti venuti dal prog come Franco Di Sabatino che militò nel Rovescio Della medaglia a partire dal 1973, e il bassista Gigi Cappellotto che suonò invece nel primo album di Fossati e nel Disco Dell'Angoscia per l'Ultima SpiaggiaMusicisti che non solo fanno ciò che vogliono coi loro strumenti, ma che, se ispirati, trasformano certe partiture in capolavori. 

Come la prima parte de Il Sole, che senza mezzi temini impreziosisce tutto l'album, e ne dimostra il reale valore malgrado le osservazioni di chi ha sempre preferito una musica più libera e spontanea.

Vittoria Lo Turco (Fiamma dello Spirito) 1937-2024

Vittoria Lo Turco

 Il 17 giugno 2024 è mancata all'affetto dei suoi cari e di tutti noi,

Vittorina Lo Turco, in arte Fiamma dello Spirito

Un mio abbraccio personale a coloro che le hanno voluto bene,

in particolare a suo nipote Diego, e ai suoi figli Flavio e Fiammetta.

Buon viaggio, nostra dolcissima strega.

Alphataurus: Alphataurus (1973)

alphataurus 1973

Il quintetto degli Alphataurus (nome astronomico della prima stella della costellazione del Toro nota anche come “Aldebaran”) si forma a Milano nel 1970 dall’unione del tastierista Pietro Pellegrini con il cantante Michele Bavaro, il chitarrista Guido Wasserman, Alfonso Oliva al basso e Giorgio Santandrea alla batteria.

Malgrado un'intensa attività dal vivo tra cui il Davoli Pop e il Palermo Pop del 1972, la band non riesce a trovare un contratto discografico.

Fortunatamente però, al festival Pop di Palermo Vittorio De Scalzi, fresco dello scioglimento dei primi New Trolls e colpito dal sound e dal livello tecnico del gruppo, lo invita ad inaugurare la neonata etichetta “Magma”, fondata insieme al fratello Aldo.

Nasce così “Alphataurus”, un trentatrè giri destinato a entrare nella storia non tanto per il suo impatto commerciale che fu molto modesto, quanto per le unanimi lodi della critica specializzata che lo riterrà uno dei migliori dischi di Prog Italiano di tutti i tempi.
Per esempio, l’amico Augusto Croce lo definirà un “capolavoro”, il duo Gaboli e Ottone gli assegnerà cinque stelle su cinque, e Progarchives giudicherà il materiale “impressionante per qualità e maturità”.

Giudizi questi che premiano non solo l'effettiva qualità del risultato finale, ma anche la sua impegnativa gestazione che vide la band provare i brani molto a lungo, trattenendosi in studio anche per 6 ore consecutive. Tempo che le consentì di incidere incidere rapidamente tutte le basi, e impiegare il tempo residuo a perfezionare i suoni, aggiungere le sovraincisioni e mixare il tutto.
In questo senso, si pensi che tutti i suoni di archi e ottoni del brano "Croma" furono ottenuti sovrapponendo i suoni di un solo Minimoog. (fonte: www.alphataurus.it)

magma alphataurus 1973Registrato agli Studi SAAR Records e Sax Records di Milano (questi ultimi utilizzati solo per il brano "Dopo l'uragano", curato dal tecnico Enzo De Rosa), il disco si presenta con una splendida cover apribile in tre parti, opera del pittore brianzolo Adriano Marangoni (padre del "movimento cellulare" e già avvezzo alle copertine di dischi) che ben rappresenta i concetti portanti dell’opera: la perdita d'identità dell'uomo e i pericoli della nascente società tecnologica.

alphataurusI brani, tutti firmati da Pietro Pellegrini, sono cinque di cui tre occupano la prima facciata e gli altri due la seconda per un totale standard di circa 40 minuti. Si tratta di lunghe galoppate in atmosfere differenziate con momenti che spaziano dal romantico al melodico sino ad intrufolarsi con gran classe nel pop rock (“La mente vola”) e nel sinfonico (“Croma”).
I testi, dal canto loro, vengono invece sviluppati da tutta la band insieme a Vittorio de Scalzi il quale li depositerà in Siae con lo pseudonimo di Funky.

Musicalmente, svetta l'autorevole voce del cantante Michele Bavaro, anche se a tratti leggermente più stentorea del necessario (“Dopo l’uragano”). Pur se leggermente frammentarie invece, le parti strumentali che denotano una grande classe esecutiva,  - (sicuramente accostabile a quella di altri colleghi più noti), valorizzata da una produzione tecnica che restituisce un equilibrio acustico sorprendente.

Da escludere assolutamente l'intervento dei De Scalzi nelle parti vocali, anche là dove queste lo suggerirebbero data la loro somiglianza con lo stile dei New Trolls.
Resta comunque il fatto che in molti brani quali la già citata “Dopo l’uragano”,la voce Bavaro richiami non poco quella Di Palo, cosa peraltro non infrequente all'epoca.

Perfetta l’opening track del lato cadetto “La mente vola(9 minuti) che raggiunge un pregevole livello di composizione, arrangiamento, esecuzione e trasporto emotivo, bilanciandosi tra un testo molto spirituale e un incedere oltremodo travolgente.

Purtroppo, il numero delle copie stampate, la promozione dell'album, l’attività dal vivo e il coinvolgimento politico del gruppo, furono così tenui da circoscriverne inesorabilmente la conflittualità, e questo pur essendo nel periodo d’oro del Prog Italiano.

Forse si potrebbe anche parlare di una leggera frammentarietà del disco la cui concettualità non si espresse sempre con la dovuta scorrevolezza ma,
personalmente, ho sempre avuto l’impressione che Alphataurus fosse stato invece solo un primo esperimento dei De Scalzi.
E’ vero che venne curato con tutti i santi crismi, ma è altrettanto probabile che non venne fatto alcun ragionamento riguardo al suo impatto (marketing si direbbe oggi) o su come un prodotto del genere avrebbe potuto affermarsi in un mondo fortemente ideologicizzato.

E di fatto, così Alphataurus rimase: osannato da tutti ma sostanzialmente marginale. 

Michele Bavaro ci ha lasciati il 18 maggio 2024.

12 aprile 2024: BUON COMPLEANNO ROCK'N'ROLL !

12 Aprile 1954 Rock Around The Clock
ROCK AROUND THE CLOCK
BILL HALEY AND HIS COMETS, live 1955

Era il primo pomeriggio del 12 aprile 1954, esattamente settant’anni fa, e nell’ex sala da ballo di una potentissima loggia massonica, da poco affittata alla Decca Records, i Comets di Bill Haley (una band sveglia e tosta che già dal 1952 mischiava boogie e swing in modo del tutto particolare) si apprestavano a registrare il loro nuovo singolo. Parliamo naturalmente di un 78 giri

Sul lato A, ci sarebbe stato il brano Thirteen Women, a cui il proprietario della Decca Milt Gabler teneva moltissimo ma che nessuno aveva mai sentito, e sul lato B l'accativante boogie Rock around the Clock, scritto nel 1952 da Max Freedman e James Myers, che invece tutti conoscevano in quanto pubblicato il mese prima da Sonny Dae & His Knights, pur senza troppo successo.

Era un momento critico per la carriera dei Comets, che dovevano a tutti i costi bissare la loro hit Crazy Man Crazy incisa l’anno prima, e per esserne sicuri si avvalsero di due turnisti d’eccezione: il micidiale batterista Bill Gussak, e il prodigioso chitarrista degli Esquire Boys, Danny Cedrone

La mossa si rivelò azzeccata, e infatti, a parte qualche problema tecnico, il risultato fu eccellente. Soprattutto per quanto riguarda il lato B che si rivelò incredibilmente potente e ben riuscito.

1954-1974 Elvis Presley, Rock'n'Roll
ELVIS THE KING, 1954

E infatti, se Thirteen Women fu dimenticata, la nuova e dinamitarda versione di Rock Around the Clock ottenne un successo talmente eclatante, che il giorno della sua registrazione corrrisponderà per molti, a quello in cui nacque il Rock'n'roll

Anche se ovviamente, non tutti furono d’accordo. 

C’è chi per esempio sostiene che quel giorno fu piuttosto il 3 (o il 5) marzo del 1951, quando Jackie Brenston and his Delta Cats registrarono Rocket 88, che però (almeno secondo me) sembrava più un boogie che un rock

Altri parteggiano per il 18 luglio 1953, quando Elvis incise privatamente un 78 giri ("My Happiness") per regalarlo a sua mamma Gladys. Ma chi mai lo seppe se non lui e pochi altri? 

E infine, altri ancora dicono che il Rock'n'roll nacque il 5 luglio 1954, quando, sempre Elvis, pubblicò la sua versione di That’s All Right di Big Boy Crudup.

70 years rock n roll
HIS MAJESTY: CHUCK BERRY
Anche in questo caso però, l’arrangiamento era [forse] ancora un po’ folk, e le vendite si assestarono “appena” sulle 20.000 copie. Nulla in confronto a quelle di Rock Around the Clock che nel marzo del 1955 sbancò le classifiche di tutto il mondo, e si impose come icona del R'n'R grazie soprattutto all’uscita del film Blackboard Jungle, di cui fu la colonna sonora. 

Ma, al di là delle precedenze, perché il Rock'n'roll cambiò la musica e il mondo intero in maniera così irreversibile ed incondizionata? 

Proviamo a spiegarlo in tre mosse.

Primo: perché democratizzò ed estese a qualunque livello, tutte le potenzialità comunicative della musica popolare. Trascendendo la regionalità del folk, l’aristocrazia della classica, la nicchia del jazz, e assurgendo così a linguaggio universale ed accessibile a chiunque. E questo indipendentemente dalla proprio grado di consapevolezza o dallo status culturale, razziale o di classe.

Il Rock'n'roll creò poi un’empatia sino ad allora sconosciuta tra sé e il pubblico, usando argomenti e atteggiamenti immediati, diretti e riconoscibili, ed estendendo così la propria sfera d'interesse a tutti i livelli del vissuto. Chiunque poteva capirlo e chiunque poteva parlarne.

Rock n roll birthday
Be  Bop A Lula: GENE VINCENT
E infine, rivolgendosi principalmente ai teenager, ai loro gusti e alle loro problematiche, il Rock'n'roll contribuì non solo alla definizione di una nuova categoria sociale, quella dei giovani, ma alla loro trasformazione in un vero e proprio soggetto sociale.  

Una galassia nuova, dinamica e propositiva, dotata di modalità espressive, comunicative ed aggregative del tutto autoctone, di un proprio mercato, ed anche soprattutto di una propria visuale politica e sociale.

La stessa che in capo a una decina d’anni si tradusse nelle grandi rivendicazioni libertarie degli anni Sessanta (dal beat al garage, dalle protest songs alla psichedelia), e poco dopo nella grande era del rock anni Settanta. (progressivo incluso). 

In pratica, il Rock'n'roll pose le basi di quello stile che, grazie anche ai nuovi interessi e alle nuove tecnologie, si contaminerà ulteriormente sino a caratterizzare quella società condivisa di cui facciamo parte.

Il Rock'n'roll insomma, traghettò la musica nella modenità, e non solo producendo nuove immaginazioni, ma stimolando milioni di persone a produrne altrettante. 

Creando così quel circolo conflittuale che, insieme alla trasgressione, è una delle basi fondamentali dell’arte

Buon compleanno Rock'n'Roll.

Oggi fanno 70... e li porti benissimo!

Acqua Fragile: Acqua fragile (1973)

acqua fragile acqua fragileMA... CHE CI FA BERNARDO LANZETTI A "THE VOICE SENIOR 2024 "?

"Un gruppo di ottimi musicisti che purtroppo non ha ancora raggiunto un'espressione autonoma o perlomeno, discretamente originale".
Così nel 1975, "Il libro bianco sul Pop in Italia" descriveva gli Acqua Fragile. Considerando la severità ideologica del libro e i giudizi ben peggiori che riservò ad altre bands, questa valutazione poteva addirittura suonare come un complimento.

La storia degli AF ebbe inizio a Parma intorno al 1971, quando i tre superstiti del gruppo beat "Gli Immortali" (Bernardo Lanzetti, Gino Campanini e Pier Emilio Canavera), rimpolparono la formazione con l'ex "Moschettieri" Franz Dondi e il tastierista Maurizio Mori per sostenere una serie di concerti con il loro nome originale.
Notati dalla Premiata Forneria Marconi per la loro abilità esecutiva, i cinque vennero dapprima introdotti alla corte del potentissimo manager Franco Mamone e successivamente presentati a Lucio Battisti che li scritturò per la sua discografica "Numero Uno".
Nel frattempo, il quintetto emiliano non solo cambiò il nome passando dall'anacronistico "Immortali" al il più moderno "Acqua Fragile" ma, sempre grazie a Mamone, riuscì a conquistare un'enorme visibilità esibendosi nientemeno che a fianco di Soft Machine, Alexis Korner, Curved Air, Uriah Heep e Gentle Giant.

acqua fragile acqua fragile 01A coronare infine un battesimo così prestigioso, nel 1973 fece capolino nei negozi il loro primo ed omonimo 33 giri.
Costituito da sette pezzi interamente cantati in Inglese, co-prodotto da Claudio Fabi e presentato con un'eccellente veste grafica (copertina apribile in forma di poster 60x60 e busta interna con i testi tradotti in italiano), "Acqua Fragile" venne subito notato dalla critica ufficiale (Ciao 2001) che non mancò di esaltarne le sue indubbie qualità: ineccepibile tecnica musicale, ritmica possente, ottima voce, continuità e fluidità nella composizione.

acqua fragile acqua fragile 02C'era però un altro lato della critica (quella Controculturale) che, pur riconoscendo all'album le sue evidenti qualità strumentali, aveva sollevato non poche perplessità sia sull'ingerenza della lingua Inglese, sia sull'eccessivo ricalco di schemi stilistici già abbondantemente sfruttati dai Genesis o dai Gentle Giant.
Va da sé che, essendo il mercato discografico giovanile estremamente dipendente dagli umori del "movimento", il primo lavoro degli Acqua Fragile non venne completamente accettato: Lanzetti "tirava troppo per la giacchetta" Peter Gabriel e i Family e comunque, la Numero Uno di Battisti non era certo il miglior referente per le soggettività avanguardiste.

Certo è che, ideologie a parte, tra il disco dei cinque emiliani e certi lavori d'oltremanica, le assonanze non erano davvero poche.
Ad esempio, sin già dal primo brano "Morning Comes" ci si accorge che tutto è speculare ai Genesis: ci sono le grandi aperture orchestrali, i crescendo di Banks, le sincopi di Collins, i cori di "Selling England" e la chiusura di "Musical Box".
acqua fragile acqua fragile 03Persino l'effettistica sulla voce richiama quella di Peter Gabriel, cosa che valse a Lanzetti un pur rispettoso accostamento col suo omologo inglese.
A peggiorare la situazione, nei due brani successvi ("Comic Strips" e "Science fiction Suite"), le citazioni si estendevano anche ai Gentle Giant ai CSN&Y di "Judy Blue Eyes" e ai Velvet Underground ("All tomorrows parties"), rendendo l'album quasi parodistico.
Purtroppo, anche volendo trovare negli altri rimanenti quattro brani una traccia di personalità autonoma, non si incontravano che ulteriori richiami al prog inglese con appena qualche barlume di mediterraneità ("Three hands man").
Al di la di qualche doveroso sussulto critico quindi, il debutto degli Acqua Fragile non decollò.
Il loro album fu di fatto la dimostrazione lampante che la dedizione al ricalco non paga, pur se affiancata da una muscolare potenza esecutiva.
Fortunatamente, le idee migliori sarebbero arrivate più tardi.

Dire Straits - Vigorelli, Milano 29-6-1981

Dire Straits Vigorelli Milano 1981
DIRE STRAITS, Milano 29-6-1981
 Serie: VALS DEL RECUERDO  (I CONCERTI DI J.J. JOHN)


Merda! Se ci ripenso sembra ieri!

E invece sono passati ben 43 lunghi anni da quel caldo pomeriggio di giugno, in cui, alle quattro e mezza circa, io e il mio amico Marco (oggi stimatissimo dirigente) varcammo felici la soglia del Velodromo Vigorelli di Milano per assistere al concerto dei Dire Straits. Ora prevista: 21,30 – 22.

Ciò significa che, siccome eravamo appostati ai cancelli da almeno due ore, e ne mancavano sei all’evento, l'attesa totale ammontò a ben otto ore tonde tonde. Cose che fai solo a diciott'anni.

Per la cronaca, quel concerto era la terza data italiana del massacrante On Location world tour (115 concerti in tutto, incluse le apparizioni a Top Of The Pops e al Festival di Sanremo), cominciato a Vancouver il 22 ottobre 1980, e la sestultima prima della sua chiusura alla Hall Omnisports di Lussemburgo il 6 luglio 1981. 

Mister Fantasy 1981
29.12.1981 -  MISTER FANTASY:
CARLO MASSARINI intervista MARK KNOPFLER

Love Over Gold e Brothers in Arms dovevano ancora arrivare, quindi, chi presenziò quella sera, ascoltò perlopiù brani dai primi tre album: Dire Straits del 1978 che fece il botto con Sultans of Swing, il successivo Communiqué da cui uscirono Lady Writer e Once Upon a Time in the West, e l’iper-osannato Making Movies (quello di Romeo and Juliet e Tunnel of Love) che convinse me e il Marco ad acquistare istantaneamente i biglietti. Probabilmente - sostiene lui - da Transex, un negozio di dischi dietro il Duomo, all’epoca il rifugio privilegiato degli Heavy Metal Kids milanesi.

E chissà poi chi ci avvisò del concerto. Internet non c’era. Ci si affidava ai manifesti, alle radio libere, alle riviste specializzate e soprattutto al passaparola, e i biglietti, appunto, te li andavi a comprare dove c’erano. Non li stampavi dal computer, e nessuno te li portava a casa col corriere. 

Fummo comunque tra i primi ad averli, il concerto era garantito, e pianificammo tutto al meglio.
Parole d'ordine "tre quattro panozzi a testa, altrettante bocce d'acqua, e birra a profusione. Si va prestissimo, e appena aprono ci scaraventiamo dentro, per stare davanti". E così fu.

Dire Straits Vigorelli Milano 1981
VIGORELLI 1981 - KNOPFLER e LINDES

Peccato che la nostra stessa idea la ebbero almeno altre due-tremila persone, cosicchè all’entrata si creò un ingorgo davvero spaventoso. Qualcuno si fece pure male, ma alla fine arrivammo non proprio davanti al palco ma quasi. E comunque in pieno centro per goderci la stereofonia e tutto il resto.

Lo stage intendiamoci, era immenso ma essenziale. Niente fumi, botti,  scenografie digitali, congegni arcani, maiali volanti o quant’altro. Giusto le due torri laterali dell’amplificazione, gli spot, le americane in alto, e per il resto, tutto concentrato sulla band e sulla musica.

Non ricordo precisamente cosa facemmo durante l’attesa, ma so che ad un certo punto non riuscimmo più a stare sdraiati. E quando verso le nove il parterre fu bello pieno, arrivarono i Fisher Z, una band non particolarmente arrapante del Berkshire (GB), inizialmente votata al punk, ma ai tempi fresca del suo album più pop: Red Skies Over Paradise

Poco più che dignitosi, ebbero comunque il merito di risvegliarci dopo sei ore d’attesa (del resto è a questo che servono i gruppi spalla, no?), e dopo una mezz'oretta ancora, ecco finalmente i Dire Straits. Ad accoglierli, trentamila persone.

Giù le luci, tutti i fari puntati sul palco, “Good evening ladies and gentlemen. Welcome to the Vigorelli!”, e vai con Mark Knopfler che in giacca rossa, maglietta bianca e fascia d’ordinanza, attacca Once Upon a Time in the West, limpido come Hank Marvin e sfacciatamente strappato ancor più del Marc Bolan di Ride a White Swan. Mai si era sentita una band che si appoggiasse solo su quel sound, e naturalmente, nessuno l’aveva mai vista dal vivo. 

Dire Straits Sanremo 1981
DIRE STRAITS A SANREMO 1981
Tre dita di intelligenza”, disse di Knopfler qualche arguto critico. Forse uno del Ciao 2001.
Sound chiaro e portentoso, tempo splendido, entusiasmo a mille. Esattamente quel che ci aspettavamo e che volevamo sentire. Poi la mia memoria si perde davanti al grande palco, e a questo punto, chiedo aiuto a chi c’era.

Due cose però ricordo molto bene.
La prima fu l’incredibile vitalità di una band che aveva pur sempre - e da oltre otto mesi - centodieci concerti sul groppone a ritmo di quasi uno ogni due giorni. “Una cosa normalissima”, direte giustamente voi. Eppure a me stupì quanto il sound fosse straordinariamente fluido e compatto. Nessuna flessione, nessuna incertezza.

Ma ciò che rimase davvero nel mio cuore, e che mi sembra di rivedere ancora adesso, fu quando, sulle prime note di Romeo and Juliet, un fascio di luce bianca centò in pieno la dobro metallizzata di Knopler, irradiando nel cielo, centinaia di raggi luminosi.

Una minuzia d'altri tempi? Sarò io che forse sono troppo romantico? Forse. Ma erano magie di un tempo in cui (Pink Floyd a parte), le grandi scenografie non erano ancora patrimonio di tutti, anzi. E le grandi emozioni del rock si coglievano dai particolari. A volte anche da una nota soltanto. E io me le ricordo tutte.

Che poi oggi sia meglio o sia peggio, non sta a me sindacare. Ma sono felice di aver vissuto quei tempi... e di poterveli raccontare.
A presto.

DIRE STRAITS, Velodromo Vigorelli,  Milano 29-6-1981
Mark Knopfler: vocals, lead guitar
John Illsley: bass
Hal Lindes
: guitar
Pick Withers: drums
Alan Clark: keyboards

PLAYLIST: Once Upon a Time in the West - Expresso Love - Down to the Waterline - Lions - Skateaway - Romeo and Juliet - News - Sultans of Swing - Portobello Belle - Angel of Mercy - Tunnel of Love - Telegraph Road - Where Do You Think You're Going? - Solid Rock

Blues Right Off: Our Blues Bag (1970) - Un esemplare curioso.

NEI COMMENTS CI SCRIVE CLAES CORNELIUS, CHITARRISTA DEGLI OUR BLUES BAG



 Recentemente mi è capitata sott’occhio questa copia senza copertina di Our Blues Bag dei Blues Right Off, croce e delizia di tutti i collezionisti di pop italiano. 

blues right offPurtroppo, la label presentava scritte e vistosi segni di pennarello che deprezzano l'intero Lp, ma che, se osservate attentamente, spiegherebbero ulteriormente la sua difficile reperibilità.
Vediamo perché. 

1°) Innanzitutto sono stati cancellati tutti i riferimenti alla formazione originale dei Blues Right Off e dei suoi collaboratori: il nome della band, quello di Claes Cornelius che compose tutti i brani dell’album, e quello di Ermanno Velludo che fu l’allora tecnico del suono. 

2°) Compare poi una curiosa scritta in alto a destra del lato A, “BLUES SOCIETY, 1972”, con la sola data replicata sul lato opposto “1972”. 

A questo punto verrebbe da chiedersi come mai un simile cimelio sia stato sfigurato al punto di abbatterne il valore a poche centinaia di euro, se non meno. 
Io precisamente non lo so, e anzi spero che qualcuno dei diretti interessati si faccia vivo per spiegarcelo.
Ho però elaborato una mia versione che credo possa essere attendibile

Come noto i Blues Right Off si sciolsero nel 1970 dopo la pubblicazione del loro primo Lp. 
Sappiamo che Claes Cornelius se ne tornò in Danimarca nel 1974, ma soprattutto che il bassista Giancarlo Salvador confluì, guarda caso, proprio nei Blues Society del compianto Guido Toffoletti, bluesman già attivo sulla scena veneziana dai tempi del beat.

Potrebbe dunque starci che alcune copie del prezioso Our Blues Bag siano state utilizzate nel 1972 come demo dalla Blues Society? Che so, per presentarsi al gestore di un locale, a una radio, o comunque per fungere da biglietto da visita di una band che non aveva ancora inciso nulla, ed era probabilmente allo stato embrionale? 

Ciò spiegherebbe come mai sarebbero stati cancellati tutti i riferimenti agli Our Blues Bag, perché sarebbe sparita la copertina sulla quale ovviamente c’erano tutti i credits a loro relativi, e perché comparirebbe appunto la scritta "Blues Society".

Ora, quanti esemplari come questo abbiano subito la stessa sorte, non lo so. In ogni caso si tratterebbe di una quantità copie rovinate che avvalorerebbero ancora di più quelle sane, rimaste ormai davvero poche.
Chi sa qualcosa, si faccia avanti.