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INDICE - INTERVISTE, RECENSIONI e VIDEO |
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"SICURAMENTE UNO DEI MIGLIORI LIBRI DI MUSICA DEL 2024 " (Guido Michelone, Buscadero) |
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NEWS: É IN RETE IL VIDEO DEL CAPITOLO N°8: MULTIMEDIA, AVANGUARDIA, HAPPENING!". La storia del Mercer Arts Center di New York, il primo centro multimediale underground della storia del rock dove l'impossibile divenne realtà: teatro, cinema, video-art, laboratori, happening! Colonna sonora: la spudorata energia di New York Dolls, Magic Tramps e Wayne County. E dopo la sua chiusura... saremo a un passo dal protopunk! |
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IVAN GUERRERIO, scrittore (1963 - 2025)
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CIAO IVAN, AMICO MIO. BUON VIAGGIO E GRAZIE PER TUTTI GLI ISTANTI VISSUTI INSIEME. NON AVER MAI PAURA, SII SEMPRE FELICE, E PENSAMI COME ANCH'IO NON HO MAI SMESSO DI FARE. UN GIORNO, SONO CERTO, CI RIABBRACCEREMO E NULLA POTRÁ PIÙ DIVIDERCI. PER ORA... ... IL MIO PENSIERO PIÚ INTENSO, TUO, John |
" ... e quando moriremo, avremo tutti un paradiso su misura molto simile al consueto locale, ma dove il bere non si paga, e non fa male". (F. Guccini) |
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Lucio Battisti: Images (1977)
PARTE 1 di 2
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IMAGES: COPERTINA INGLESE |
Images fu il tipico esempio di album che non avrebbe mai dovuto uscire. Ma non solo per la sciagurata pronuncia di Lucio, o perché - tra punk e contestazioni varie - il 1977 non era il momento migliore per le produzioni più raffinate, quanto per una lunga serie di circostanze che gli preclusero qualunque possibilità di successo.
Prima tra tutte, la nuova gestione della RCA Americana che verso la fine del 1974 acquistò per 400 milioni di lire tutte le azioni della Numero Uno in mano a Mogol e che quindi ne diventò l’unica proprietaria. E anche se il potere artistico rimase a Battisti, quello economico passò invece a una corporation severa, presenzialista, ossessionata dal proprio conto economico, e la cui ingerenza fu determinante per la disfatta dell’operazione.
Ma andiamo con ordine.
L’idea di fare un album per il mercato anglofono, prese già piede nel 1975 quando, recatosi in America per aggiornarsi sulle nuove tendenze, Lucio s’immaginò una sorta di Greatest Hits dei suoi brani migliori, ma cantati in inglese.
La proposta piacque anche alla RCA che pensò di affiancarla al nuovo album in italiano (che sarebbe stato Io, Tu, Noi, Tutti), e a soli quattro mesi dall’uscita di La batteria, il contrabbasso, eccetera, Battisti convocò nello studio Il Mulino di Anzano del Parco la cantante / poetessa / traduttrice americana Marva Jan Marrow. Per inciso, colei che si fidanzò con Patrick Djivas proprio nel momento in cui stava piantando in asso gli Area. I due vennero dotati di tutti i comfort tra cui un autista privato e un traduttore ausiliario 24/7, e la produzione si mise in moto.
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IL MULINO di Anzano del Parco (foto casa.it) |
Nel giugno del 1976 nacquero i testi di To Love a Bit, The Sun Song, Freedom’s Song e A Star on a Film (rispettivamente: Amarsi un po’, La Canzone del Sole, Il mio Canto libero e L’Interprete di un Film), a luglio furono registrati i primi provini, in agosto vennero incisi quelli semi-definitivi curati da Claudio Pascoli e Gianni Prudente, e a fine mese arrivarono anche le basi italiane di Amarsi un po’, Si Viaggiare e Questione di Cellule.
Infine, intorno al 3 settembre, i lavori furono giustamente sospesi in occasione del matrimionio di Lucio e Maria Grazia.
Tuttavia, preoccupata dal protrarsi dei preparativi, la RCA Italiana, cominciò a farsi sentire: comunicò a Battisti – per motivi che poi vi dirò – che “sarebbe stato meglio produrre il disco in inglese entro fine anno", e senza nemmeno aspettarsi una risposta, gli appronto studi, musicisti e trasferta in quel di Hollywood da ottobre a dicembre.
Là, avrebbe terminato Images, avvalendosi soltanto di personale americano (perché quelle erano le leggi in vigore da quelle parti) e per giunta con dei nuovi testi voluti da Mogol che, senza neppure interpellarlo, aveva cestinato tutti quelli della Marrow, e li aveva fatti riscrivere da un suo amico americano residente a Roma, tale Peter Powell.
Umiliato e messo alle corde, Lucio fece buon viso a cattivo gioco, si gestì controvoglia la nuova situazione, ma ciò che gli pesò di più, non fu soltanto il comportamento – non certo collaborativo - di Mogol, quanto il dover rinunciare a tutti i progetti che aveva fatto per l’album.
Si perché lui, il progetto Images, lo aveva pensato in maniera completamente diversa.
Conscio di affrontare un mercato ostico, avrebbe preferito trasferirsi qualche anno negli States, imparare bene la lingua, frequentare studi e musicisti per capire meglio usi consuetudini locali e magari, suonare qualche piccolo club per misurarsi direttamente col pubblico americano.
Ma non fu possibile...
... CONTINUA NELLA SECONDA PARTE
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J.J. JOHN
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Etichette: BATTISTI Lucio
Gianfranco Manfredi: Zombie di tutto il mondo unitevi (1977)
CIAO CARO COMPAGNO.
CI HAI FATTO RIFLETTERE SORRIDENDO,
E HAI CANTATO LA RIVOLUZIONE
COME NESSUN'ALTRO HA SAPUTO FARE.
CI HAI DATO TANTO
E ORA VIAGGIA FELICE.
A PUGNO CHIUSO.
Con il Festival del Proletariato Giovanile di Re Nudo del 1976 si chiuse per sempre la stagione della Controcultura.
Da quel momento in poi infatti, fu evidente che non si poteva più proseguire sulla strada tracciata negli anni precedenti e nulla sarebbe tornato come prima.
Disincanto e separatismi avevano ormai dilaniato un’intera generazione di militanti, e di lì a poco il riflusso neoliberista avrebbe richiesto ben altre strategie di opposizione.
Un trauma che investì anche quel pop italiano che aveva proliferato all’interno del Movimento, e spesso se ne era fatto interprete attraverso un percorso creativo durato almeno otto lunghi anni. Sin quando cioè, le sue sofisticate architetture dovettero cedere il passo all’ironia iconoclasta del Movimento del 77 e all’immediatezza violenta e rabbiosa del punk.
Tornando comunque ai mesi successivi al giugno 76, furono in molti a chiedersi il perché si fosse arrivati sino a quel punto, ma non sempre sapendo cosa rispondere, anzi: il dibattito fu talmente sofferto e complessso da occupare un intero numero speciale di Re Nudo.
E vi contribuì anche il cantautore Gianfranco Manfredi, già da tempo raffinato lettore dei mutamenti sociopolitici in corso, condensando in un solo Lp tutti gli scenari, le aspettative, le delusioni e le contraddizioni che trasformarono un grande sogno in una bruciante sconfitta.

Ed è proprio questa solitudine interiore e politica che produrrà l’Ultimo Mohicano: militante con ancora in mano il suo ultimo sanpietrino che chiede all’amico spazzino dove siano finite le barricate e la madama in assetto di guerra: “Non ci sono più, dove le han portate?”
La speranza in una ricomposizione impossibile è invece protagonista di Nella Diversità in cui si auspica come, superando i fatti del Lambro, le divergenze tra Autonomia e Movimento possano ricompattarsi in una collettivizzazione contro merci, martiri, santi ed eroi. Purtroppo invano.
Ciò che però rese epocale l’album di Manfredi, furono sicuramente i due brani più ricordati: Un tranquillo festival pop di paura e Zombie di tutto il mondo unitevi.
Il primo, scritto insieme a Ricky Gianco, è un circostanziato e fedele affresco scevro da qualunque ipocrisia sui giorni del Festival. Anzi: quasi un reportage, ma esteso sin dentro le coscienze. Un poster di umanità, diversioni e solitudini che confluirà in una tormentata cosapevolezza: “abbiamo fatto il punto, e niente è come prima”.
È però "Zombie" il vero capolavoro del disco: cinque minuti densi e crudeli in cui le tipiche rime manfrediane si dipanano su un tappeto sonoro liquido e avvolgente, quasi fosse un mantra.
Un continuo alternarsi di nitide analisi politico-esistenziali e di pura poesia che non si limitò soltanto a restituire un passato ormai dismesso (quello degli "zombi proletari che solo nel silenzio sanno illudersi uguali"), ma si aprì nei versi finali ad una straordinaria quanto inaspettata solarità:
“Oltre questa storia ce n'è una più bella. E non è la memoria, non è la nostalgia […] È la storia segreta, la storia parallela. Là dove íl nostro inverno, diventa primavera”.
Registrato negli studi milanesi della Ricordi tra il 18 aprile e il 5 maggio del 1977, Zombie di tutto il mondo unitevi sarebbe stato l’ultimo e il miglior disco incentrato sulla fine di un’epoca, prima che la repressione poliziesca e l’urbanistica silenziassero e inghiottissero intere metropoli con tutto il loro carico di creatività, intelligenza e conflittualità.
Un album che senza parafrasi è un pezzo di storia, e come tale va ascoltato e letto.
Per inciso, alla sua realizzazione collaborò il fior fiore dell'avanguardia di allora, ma anche molti musicisti fuoriusciti dal prog. Qualche nome: Gianluigi Belloni, Julius Farmer, Claudio Bazzari, Mauro Pagani, Roberto Colombo, Lucio Fabbri, Massimo Luca, Claudio Pascoli, Gianna Nannini, Ivan Cattaneo, Toni Esposito e naturalmente, il fedele amico Ricky Gianco.
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J.J. JOHN
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Intervista a Gianni Bianco dei CIRCUS 2000
UN CARO RICORDO DI GIANNI BIANCO, PERSONA SOLARE E INDIMENTICABILE CHE HO CONOSCIUTO, E NON DIMENTICHERÒ MAI. IL MIGLIOR ROCK ITALIANO PORTA ANCHE LA SUA FIRMA. CIAO CARO GIANNI. SII FELICE, SEMPRE!
Marzo 2019 - IN ESCLUSIVA PER CLASSIC ROCK: INTERVISTA A GIANNI BIANCO, L'INDEMONIATO BASSISTA CHE HA CARATTERIZZATO CON SILVANA ALIOTTA IL SOUND DEI MITICI CIRCUS 2000. A LUI E A TUTTI I CIRCUS VA IL NOSTRO PIU' GRANDE E SINCERO ABBRACCIO!
J.J.: Caro Gianni, innanzitutto grazie mille per la tua disponibilità. Comincerei col chiederti come sono nati i Circus 2000?
GB: Suonavo in un gruppo storico di Torino, I Kobra col quale avevo vinto un concorso cittadino e il concorso Davoli regionale ottenendo una certa popolarità.
Quando il gruppo si sciolse, un mio compagno di scuola mi disse che suo zio Johnny Betti, ottimo jazzista, cercava dei giovani musicisti per formare un gruppo rock. La cosa mi stupì un poco ma accettai quando seppi che era più vecchio di me solo di pochi anni.Johnny mi chiese se conoscevo un bravo chitarrista ed io gli presentai Marcello Quartarone che suonava con me nell'ultima formazione dei Kobra ed era già un fervido compositore.
Chiamammo il trio Genius e facemmo esperienze bellissime con vari musicisti che andavano e venivano tra cui i sassofonisti Guido Scategni, Eddy Busnello (lo puoi sentire nel primo disco degli Area), un fantastico organista californiano Dennis Kaufmann (quando si dice il caso) ed i cantanti Mario T. ed il grande Pierfranco Colonna.
Suonammo di tutto da Hendrix a Otis Redding, dai Cream a J. Cocker, ai Vanilla Fudge e BS&T e a un certo punto decidemmo che era ora di fare sul serio. Pensai a Silvana Aliotta che avevo sentito cantare tempo prima senza più dimenticarla.
Così ci mettemmo al lavoro ed io proposi il nome Circus 2000 ed il canto in inglese e non tanto per spacciarsi come stranieri, ma per avere un sound migliore e perchè poteva aprire porte chiuse, come è poi successo.

Il testo di "Try to live" è scritto da me,così come tutti i testi di "An escape..." ed il brano "Hey man".
Tutti gli altri brani sono di Marcello e qualcosa è improvvisato in studio. Tutti hanno contribuito attivamente, con fantasia, agli arrangiamenti.
Non essendo iscritti alla Siae non firmammo i pezzi e stiamo ancora aspettando i soldi, comprese le royalties! Bello vero?
Se penso che i nostri CD sono stati venduti un pò in tutto il mondo...
J.J.: Già... infatti siete stati praticamente tra i primi a portare avanti un certo discorso Pop (inteso come Pop italiano ndr), ancora prima del Progressive. Ma dimmi, questa "voglia di novità" era premeditata o vi veniva, per così dire, "spontaneo trasgredire"?
GB: La seconda che hai detto. E poi, scusa, ma non trovo adeguato il termine Pop. Come afferma Vernon Joynson, autore del libro "The flashback", noi appartenevamo al genere Psych Progressive. .. se proprio vogliamo stabilire un genere...
J.J.: E poi come siete approdati alla Ri-Fi?
GB: Alla RiFi ci presentò il nostro impresario attraverso un'audizione. Le difficoltà vennero dopo per arrivare ad incidere "An escape...", ritenuto troppo "osè".
Tra l'altro il contratto prevedeva anche un terzo LP che la RiFI non volle più fare e registrò solo qualche 45 in italiano con Silvana.
Si sono liberati di noi e sono stati tutti contenti,credo.

Dimmi Gianni, come mai questa impostazione così "californiana" del primo album?
GB: Non saprei... a quel tempo avevamo pochissimi dischi e quasi tutta roba inglese, o R&B o Jazz... per di più passavamo le sere libere allo Swing Club di Torino ad imparare dai grandi jazzisti che passavano di là.
Una cosa è certa però: a quel tempo la Psych Generation era come se fosse in contatto telepatico. Noi suonavamo l'onda e l'onda suonava attraverso noi.
J.J.: E quando andavate in giro, che riscontro avevate?
GB: Buono. Nessuna diffidenza e a parte i soliti provocatori che potevi incontrare qua e là: per esempio partecipammo all'11° Cantagiro e quando arrivammo a Perugia salendo un viale, certi "goliardi" bombardarono il corteo dall'alto con una sostanza marrone che non era cioccolato!
Tutti quelli davanti a noi (15) furono colpiti, ma il nostro furgone non fu neanche sfiorato e dietro non so chi si salvò! Grazie ragazzi!
Comunque a parte alcuni episodi sporadici era tutto OK..
J.J.: Gianni, cosa ha provocato svolta "Prog" del secondo album? Vi siete adeguati all'aria che tirava, sentivate che finalmente c'era più spazio per delle idee nuove o cos'altro?
GB: Era semplicemente nell'aria... un' evoluzione naturale.
Hai mai sentito Ummagumma dei Pink Floyd? Era del '69, ma se noi avessimo proposto qualcosa di simile in Italia nel '69/'70 ci avrebbero fucilato!
Comunque lo spazio dovevi prendertelo rischiando tutto. E così abbiamo fatto.
J.J.: Com'è andata questa "seconda fase" rispetto alla prima?
GB: Per noi sempre meglio, anche se cambiare tanti batteristi mi ha creato qualche difficoltà. Comunque sono stato fortunato, erano tutti bravissimi e sensibili e mi hanno aiutato a crescere.
Le serate però sono diminuite un pò perchè il genere si faceva più impegnativo e forse era insufficente la promozione.
Per fortuna la TV, il Cantagiro, la vittoria al secondo Festival delle nuove tendenze e Controcanzonissima '72, ci hanno portato molta popolarità e rispetto.
J.J.: A proposito di Festival Pop , che aria tirava?
GB:

L'aria era: "siamo tutti qui con un solo desiderio stare in pace e trascorrere una bella ed indimenticabile giornata". Vorrei poterli abbracciare tutti in un colpo solo. Dovunque siano,vorrei ringraziarli di aver lasciato un segno e tante buone vibrazioni nei vari festival d'Italia.
J.J.: Frequentavate altri gruppi... anche politici voglio dire?
GB: Musicalmente frequentavamo solo i gruppi di Torino, a cui rivolgo un caro saluto.
Avevamo però molta stima per molti gruppi italiani, citerò gli Area per tutti.
Politicamente invece no! Come dissi a suo tempo ad un intellettuale: "i musicisti non hanno bisogno di politicizzarsi perchè la musica è politica!"
Bisogna saper ascoltare.
J.J.: Che ruolo pensi abbiano avuto i Circus 2000 nella musica italiana?
GB: Quello di un rompighiaccio, anche se il ghiaccio si è poi ricompattato.
Il primo LP in inglese di un complesso italiano e venduto bene anche all'estero, in fin dei conti... l'abbiamo fatto noi... forse?!
J.J.: ... sono stati allora "anni meravigliosi" come dicono in molti?
GB: Si, sono della stessa opinione,peccato che "qualcuno" abbia lavorato a tutti i livelli per rovinare tutto, e alla fine c'è riuscito. Del resto quell'onda non piaceva nè all'est nè all'ovest...
... solo l'amore salverà il mondo!.
J.J.: ... due aneddoti per chiudere in bellezza...
GB: Dunque... il primo. La stella a 5 punte rovesciata,sulla copertina di "An escape...", non è stata una nostra idea. No satanists here!
E infine, sempre sullo stesso disco, l'assolo di voce di Silvana che sembra un nastro "al contrario" in realtà è stato cantato proprio così, sorprendendo tutti.
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Etichette: CIRCUS 2000 , GIANNI BIANCO
Battiato: Foetus (1974, pubb. 1999)
Verso la fine del 1973, la casa discografica Island Records con sede nel cuore di Londra, era un vulcano in eruzione.
E anche se il collega Giordano Casiraghi, sostenne che Battiato avesse già tenuto un concerto in terra d’oltremanica, precisamente a il Coventry il 13 settembre 1973, pubblicizzato, come “… an artist from Europe (Italy). Featuring vanguard Music Moog Synthesizer", si trattò sicuramente un evento sporadico.
Prima mossa quindi, e siamo all’inizio del 1974: registrare la versione inglese di FETUS (cosa che avvenne presso gli Island Studios di Basing Street.), pubblicarla, e infine promuoverla non appena Franco avesse terminato le registrazioni del suo nuovo album CLIC.
Un planning perfetto quindi, peccato che andò tutto a scatafascio.
Una pronuncia aberrante innanzitutto, e dei testi tradotti talmente alla lettera che neppure con tutta la buona volontà sarebbe stato possibile definire accettabili.
E questo perché, se da un lato la rigidità della traduzione aveva prodotto un inglese irreale, in fase di trasposizione si perse anche tutta quella raffinata fluidità fonetica che connotava invece i testi italiani.
Così, la splendida intro di Energia,
diventava un’orrenda e impronunciabile
mentre il cuore concettuale del brano
venne massacrato in
Non oso neppure immaginare cosa pensò Chris Blackwell quando ascoltò quei provini da lui tanto agognati, ma di certo gli bastò per mettere una pietra sopra il progetto FOETUS, e non volerne parlare mai più.
Pubblico ubriaco che lo scambiava per un tecnico di sala, gradimento a fasi alterne, e peggio che mai, un grave incidente d’auto che, dopo il concerto del 23 febbraio alla Roundhouse di Londra, lo costrinse a rimpatriare anzitempo.
Saltarono così tutte le undici date con Stomu Yamash’ta, l’Inghilterra rimase un brutto ricordo, la sua lingua anche, e a giudicare dalla versione inglese della hit Up Patriots To Arms (circa 1980) non mi sembra che Franco abbia fatto molto per migliorarsi.
O forse, non gli interessava neanche...
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J.J. JOHN
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Etichette: BATTIATO Franco
Da Battiato a Battisti. Gli italiani e l'inglese.
L’Italia - come sappiamo - ha sempre avuto un'attrazione speciale per l'America. Per effetto di quel Piano Marshall che le permise di rialzarsi dopo la seconda guerra mondiale, per quel suo mercato sempre debordante di dollari e di opportunità, ma anche per la straordinaria seduttività dei suoi miti. Sia quelli innocui, che quelli che cambiarono il mondo.
Questo interesse, dicevo, iniziò nel 1945, subito dopo la liberazione, quando conoscemmo i chewing gum, le Camel e la Coca Cola, proseguì lungo gli anni Cinquanta con l'arrivo del Rock'n'Roll, e si consolidò negli anni Sessanta con il contributo decisivo della british invasion e della swinging London.
Erano tempi in cui atteggiarsi ad angloamericano faceva figo, piazzare una hit negli States o in Inghilterra significava entrare nella leggenda, e anche se qualche superstar d'oltremanica si cimentò con la nostra lingua (ricordiamo Stevie Wonder, David Bowie e Sandy Shaw), il trend rimase sempre a senso unico. Eravamo sempre noi a imitare gli inglesi, mai viceversa. E del resto, con un patrimonio conflittuale ridotto al minimo e abbarbicati come cozze al melodico ottocentesco, cos'altro avremmo potuto fare? Nulla.
Ci convincemmo così che l'inglese poteva davvero nobilitarci, tentammo in tutti i modi di dimostrarlo e infatti, almeno la metà del nostro beat fu composta da brani tradotti. Alcuni bellissimi come Ragazzo di Strada dei Corvi, o Per vivere insieme dei Quelli (rispettivamente I Ain't No Miracle Worker dei Brogues, e Happy Together dei Turtles), altri meno come Corri Uomo, Corri, dei Giganti, versione italiana di Space Oddity.
Malgrado gli obbrobri però, i successi prevalsero.
Economicamente, italianizzare le canzoni rendeva e conveniva, a volte gli ascoltatori non si rendevano nemmeno conto che certi brani fossero delle cover, e il fenomeno proseguì anche nel decennio del grande rock, del pop e del cantautorato. Gli anni Settanta.
E se nessuno pensò mai di tradurre Whole Lotta Love, Smoke on the Water o The Musical Box, il virus albio-americano contagiò nuovamente tutti i protagonisti del nostro panorama musicale. Ma qui cominciarono i problemi.
Perché, se negli Sessanta l'Italia era ancora molto ingenua in fatto di lingue straniere, per cui molte imperfezioni passavano in secondo piano, la proliferazione delle radio indipendenti, la massiccia diffusione delle hit d'oltreoceano e d'oltremanica, e una maggiore attenzione del pubblico per certi dettagli (testi, immagine, contenuti, slang, pronuncia ecc), resero i nostri limiti tragicamente evidenti.
E non parlo di artisti quali Stratos, Finardi, Tofani, Branduardi, Sorrenti, De Scalzi o Lanzetti che l'inglese lo sapevano e lo parlavano alla perfezione, ma di coloro che vollero cimentarsi per moda o per forza con una lingua che proprio non faceva per loro.
Per esempio, il Rovescio della Medaglia, il cui album Contamination fu – credo - tra i punti più bassi delle nostre produzioni in lingua (al punto che molte parti corali, diciamo così, un po’ "borgatare" vennero stemperate da tonnellate di riverbero), Il Balletto di Bronzo, la cui versione albionica di YS lasciò molto a desiderare, e gli Osanna i cui tre brani in inglese del loro primo album accusavano una sintassi molto migliorabile
E infine, gli Alluminogeni la cui Cry for me (= L'alba di Bremit) fu giustamente ritenuta dalla stampa specializzata, "a pitiful exercise". Mi riprometto di chiedere dettagli al mio amico Patrizio.
Tra i cantautori / solisti invece, ci fu Edoardo Bennato, che rilesse in anglo-partenopeo l’originale e stupenda Cantautore, Ivano Fossati che con un flow un po' cementato cantò le sue Where Is Paradise e Harvest Moon in Indiana Goodbye, e il compianto Franco Battiato, il cui inglese davvero aberrante tolse a Foetus qualunque speranza di essere pubblicato.
E se quelli che ho ascoltato personalmente erano veramente dei provini di un De Andre’ d'oltremanica, allora è davvero meglio che siano rimasti inediti.
Negli anni Settanta però, tutti i riflettori erano puntati su Lucio Battisti, al punto che qualunque cosa dicesse, facesse o cantasse, sollevava un polverone mediatico senza precedenti.
E questo accadde anche con Images, il suo primo e unico album in inglese. Un disco che ebbe una gestazione difficile, che gli procurò più dolori che gioie, e che (forse) sarebbe stato meglio abortire in tempo.
A risentirci nella seconda parte.
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J.J. JOHN
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Etichette: BATTISTI Lucio
1971-1973 - Woodstock in Brianza. Il post di Mary Nowhere.
C'è stato un periodo della nostra storia in cui la Brianza, quindici anni prima di diventare "la culla del neonazismo lombardo-veneto" (un'espressione di Franco "Bifo" Berardi con chiaro riferimento ai vari "leghismi" molto diffusi in quella regione), ospitò il fior fiore dell'alternativa italiana.
Più specificatamente, le prime tre edizioni del RE NUDO POP FESTIVAL a Ballabio (1971), a Zerbo (1972) e all'Alpe del Vicerè (1973), che davanti a migliaia di persone, videro esibirsi artisti mitici e seminali del prog quali Area, Duello Madre, Garybaldi, Nuova Idea, Banco, Dedalus, Battiato e Aktuala.
Due anni fa, la blogger Mary Nowhere ne ha stilato un dettagliato ricordo, sia dal punto di vista geografico che da quello emozionale, che oggi vi consiglierei davvero di leggere.
Per arricchire la vostra sensibilità, per fare tesoro dei sogni passati, e per spingervi ancora verso nuove immaginazioni.
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J.J. JOHN
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New Trolls: Ut (1972)
Se non fosse per l'imminente ciclone che di lì a poco avrebbe devastato lo storico gruppo genovese, potremmo definire il loro quinto ellepì "Ut", uno dei meglio riusciti della loro produzione.
Purtroppo però, tutte le meraviglie che appaiono in quest'album si presenteranno all'ascoltatore quasi a comporre un epitaffio la cui stesura era già iniziata da qualche tempo.
Vittorio de Scalzi per esempio, dopo un momentaneo abbandono del gruppo decide definitivamente di rinunciare al suo storico ruolo di autore e di comparire solo come chitarrista, lasciando quindi carta bianca a Di Palo, Belleno, Laugelli e Maurizio Salvi, già collaboratore del gruppo all'epoca del singolo "Una Storia". Per inciso, il brano di Sergio Endrigo che i new Trolls portarono a Sanremo nel 1971 perché gli Alluminogeni si rifiutarono di farlo! "Non volevamo far perdere Endrigo", mi confidò personalmente Patrizio Alluminio. E aveva ragione.)
Malgrado gli attriti comunque, il sound che esce da "Ut" è sorprendentemente variegato e brillante quasi come se il gruppo, già conscio del suo futuro, volesse rilassarsi senza calcare troppo la mano sulle implicazioni della loro imminente separazione.
Già dal titolo (Ut è l'antico nome della nota "Do"), si capisce che la band voglia concentrarsi solo sulla musica: intenzione che nella pratica sarà mantenuta restituendo in otto brani tutte le sfaccettature musicali appannaggio dei musicisti.
Si comincia con una rielaborazione di Salvi di uno studio per piano di Johann Baptist Cramer per entrare senza soluzione di continuità in un breve ma infuocato prog-rock di marcato sapore fusion ("XII Strada").
Fin qui, la coesione della band è probabilmente la migliore che si possa ascoltare da "Concerto grosso" e la successiva prog-song, "I cavalieri del Lago d'Ontario" (testi: Laugelli, voce: Di Palo), non è solo una conferma di questo evidente stato di grazia, ma supera addirittura ogni aspettativa restituendo uno dei migliori brani in assoluto del quintetto.
Ancora una volta, viene da chiedersi come una formazione del genere stesse per dividersi.
Se "Storia di una foglia" e "Nato adesso" rispecchiano rispettivamente le due anime contrapposte di De Scalzi e Di Palo, riportando il disco su una dimensione più soffice, la dignitosa "Nato adesso" ci catapulta nella seconda perla di questo disco,"C'è troppa guerra," che è di fatto un micidiale cocktail di hard-rock e unplugged a mezza via tra le cose migliori dei Led Zeppelin e dei Black Sabbath.
In dieci minuti di compattezza granitica i New Trolls mettono in riga tutte le altre formazioni che si sono cimentate nell'hard, o che avrebbero appena voluto imitarli. Personalmente, trovo che in questo brano la voce di Di Palo raggiunga uno dei suoi massimi vertici espressivi.
Con grande raffinatezza segue poi una ballata pop soft di stampo "estivo" ("Paolo e Francesca"), nobilitata da un particolarissimo assolo di chitarra ma complessivamente non proprio imprescindibile.
Chiude l'album la struggente "Chi mi può capire" che completa il vasto catalogo di umori che hanno attraversato il long playing e che, insieme ai "Cavalieri del lago di Ontario", si contende il titolo di miglior brano di Ut.
Sulle ultime malinconiche note di pianoforte, calèrà infine il sipario sulla prima grande epopea dei New Trolls.
In poco meno di sei mesi De Scalzi abbandonerà definitivamente gli altri per dar vita a una sua casa discografica (la "Magma") e costituire con D'Adamo gli NTAtomic System.
Di Palo formerà gli gli Ibis con Belleno, il quale a sua volta fonderà successivamente i Tritons.
Infine, nel 1976, proprio grazie a Gianni Belleno, nel frattempo tornato con De Scalzi, il gruppo originale si ricompatterà ma con obiettivi più votati al commerciale. Musica di classe s'intende, ma pur sempre Pop.
Malgrado la vacillante situazione del gruppo, "Ut" vendette piuttosto bene, al punto che furono in molti a caldeggiare i due leaders di restare insieme. La stroria però era già scritta.
Data la vastità di inputs e di riferimenti, la critica fu ovviamente divisa sul suo effettivo valore.
Da un lato c'è chi lo considerò un collage non particolarmente innovativo e neppure troppo omogeneo, per non dire "discontinuo e inconcludente", dall'altro non furono in pochi a considerarlo un disco quasi miracoloso (considerando la situazione) e di gran lunga superiore ai precedenti Concerto Grosso e Searching for a land.
In questo caso probabilmente la verità sta nel mezzo e, personalmente, amo pensare a questo disco come un valido compendio delle capacità della band che perlomeno, premiò una una breve ma ritrovata conflittualità.
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J.J. JOHN
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