Qualche Libro sul Prog Italiano


libri sul progressivo  italiano
- A.A.V.V: Libro bianco sul Pop in italia (Arcana Editrice, Roma 1976)
- ANGIOLINI - GENTILE: Note di Pop Italiano (Gammalibri, 1977)
- CAROLI - GENTILE - L'arcipelago Pop (Arcana, 1977)

- RICCARDO BERTONCELLI - Enciclopedia Rock anni '70 (Arcana, 1987)
- PAOLO BAROTTO: Il ritorno del Pop italiano (Vinyl Magic, Milano 1990)
- GINO CASTALDO: La terra promessa (Feltrinelli, 1994)
- FRANCESCO MIRENZI: Rock Progressivo Italiano (Castelvecchi, 1997)
- MAURIZIO BECKER: C'era una volta la Rca (Coniglio Editore, Roma 1997)
- PIERSANDRO PALLAVICINI: Quei bravi ragazzi del Rock Progressivo (Costa & Nolan, 1998)
- CESARE RIZZI: Progressive (Giunti Editore, 1999)
- PAOLO BAROTTO: 100 foto storiche di pop italiano (Stampato in proprio, 2002)
- RICCARDO STORTI: Progressive in Italia (Associazione Nonsolomorego, 2002)
- CESARE RIZZI: Progressive & Underground '67 - '66 (Giunti Editore, 2003)

- GIORDANO CASIRAGHI: Anni '70 Generazione Rock (Editori Riuniti, Roma 2005) 
- GABOLI - OTTONE: Progressive italiano (Giunti editore, Firenze 2005)
- DOMENICO CODUTO: Il libro degli Area (Auditorium, Milano 2005)
- TIZIANO TARLI: Beat Italiano (Castelvecchi, Roma 2005)
- MASSIMO FORNI: Lungo le vie del prog (Palladino Edizioni, 2008)
- RICCARDO STORTI: Rock Map (Aerostella, 2009)
- MATTEO GUARNACCIA: Re Nudo Pop e altri festival 1968 - 1976 (Volo Libero, 2011)
- ANDREA PARENTIN: Rock Progressivo Italiano: An introduction to Italian Progressive Rock (Createspace, 2011)
- FRANCO BRIZI: Volo magico (Arcana, 2013)
- JOHN N. MARTIN, MICHELE NERI, SANDRO NERI: Il libro del prog italiano (Giunti, 2013)
- MOX CRISTADORO: I 100 migliori dischi del prog italiano (Collana: I Tifoni, gennaio 2014) 
- AUGUSTO CROCE: ITALIAN PROG, (Private pressing 2016)
- MASSIMO SALARI: Rock Progressivo Italiano 1980-2013 (Arcana, 2018) 
 




Sui movimenti antagonisti e creativi italiani dal dopoguerra agli anni '80:
 
- BEAT: 
- MELCHIORRE GERBINO: Storia documentata di Mondo Beat (Scritti inediti)
- SILLA FERRADINI: I fiori chiari (La scimmia verde, Milano, 1976)
- FERNANDA PIVANO: C'era una volta il Beat (Arcana, Milano 1976)

- UNDERGROUND:
- AAVV: L'amore mio non muore (Arcana, Roma 1971)

- ANDREA VALCARENGHI: Underground a pugno chiuso (Arcana, Roma 1973)

- CONTROCULTURA:

- ANDREA VALCARENGHI: Non contate su di noi (Arcana, Roma 1977)

- CIRCOLI DEL PROLETARIATO GIOVANILE, AUTONOMIA, CENTRI SOCIALI
 
- A.A.V.V.: Sarà un risotto che vi seppellirà (Squilibri, Cologno Monzese, 1977)
- A.A.V.V.: Centri Sociali autogestiti e circoli giovanili (Feltrinelli, Milano 1978)

- A.A.V.V.: Leoncavallo 1975 - 1989 (a cura di Democrazia Proletaria, Milano 1989)

- MEDIA (Radio libere)
- MARCO GAIDO: Radio Libere? (Arcana, Roma, 1977)
 
- B. BERARDI, E. GUARNIERI: Alice è il diavolo (Shake, Milano, 2002 - IIa ed.)

- MOVIMENTO '77
 
- A.A.V.V.: Settantasette. La rivoluzione che viene. (Castelvecchi , Roma, 1997)

- SUBCULTURE ANTAGONISTE E MOVIMENTO OPERAIO:
- PRIMO MORONI - NANNI BALESTRINI: L'orda d'oro (SugarCo, Milano 1988)

- JOHN N. MARTIN - PRIMO MORONI: La luna sotto casa (Shake, Milano 2007)



Città frontale: El tor (1975)

Rimasti orfani di Rustici e D’Anna, emigrati in Inghilterra per formare prima gli Uno e poi i Nova, gli ex-Osanna Lino Vairetti e Massimo Guarino si coalizzano nel 1975 per dar vita a un nuovo progetto in cui coinvolgono il sassofonista Enzo Avitabile, il bassista Rino Zurzolo, il tastierista Paolo Raffone e il chitarrista Gianni Guarracino reduce dai Saint Just.

Stabilizzatosi verso la fine del 1974, il sestetto decise di battezzarsi, con un pizzico di malizia, Città Frontale, ovvero con lo stesso nome di quella formazione che, insieme ai Volti di Pietra originò gli Osanna nei primi anni ’70.

Ottenuto un contratto con la Fonit Cetra, la band si mette subito al lavoro e pubblica nel 1975 un concept album intitolato El Tor, sviluppato su un tema piuttosto pessimistico.
Nel disco infatti, si immagina che nel tentativo di redimere una società malata, il protagonista ne venga invece assorbito trasformandosi in una sorta di flagello che seminerà morte e distruzione, esattamente come quel vibrione del colera (di cui “El Tor” è il soprannome) che mise in ginocchio la città di Napoli due anni prima.
Dotato di una intrigante copertina disegnata dallo stesso batterista Massimo Guarino, l’album comprende otto brani ripartiti equamente su due facciate, in cui si alternano momenti jazz rock, progressive e ampi spazi acustici che, per certi versi, richiamano palesemente le atmosfere della gloriosa band d'origine.

A questo punto bisognerebbe fare una considerazione perchè, anche se i nuovi Città Frontale vollero sicuramente crearsi una nicchia più esclusiva, la maggior parte della critica non mancò mai di vedere in “El Tor” una “chiara derivazione dal sound degli Osanna” (cfr. R.Storti), sino quasi a ricondurre l’album ad un opera inesorabilmente derivativa: “il suono dei Città Frontale è riconducibile proprio agli Osanna” (cfr. F.Mirenzi).

Da un punto di vista politico inoltre, pur se molti osservatori ritennero che i Città Frontale fossero molto più espliciti e impegnati dei loro antenati, nella realtà, il gruppo di Vairetti e Guarino si fermò solo all’aspetto iconografico di una militanza che, pur tra mille contraddizioni, altri avevano invece portato avanti in maniera molto più convincente e concreta.

Ma dunque “El Tor” fu o non fu un album degli “Osanna di serie B? Difficile dirlo.
Realisticamente parlando, solo un attento ascolto delle sfumature potrebbe allontanare il gruppo di Vairetti da qualunque sospetto di derivatività.
E' pur vero che la presenza di due mostri sacri come Zurzolo e Avitabile iniettò nel sound dei Città Frontale elementi funky e di jazz che nel "gruppo madre" non erano così evidenti. Tuttavia è altrettanto plausibile che l’amore di Vairetti per la west coast fosse già stato sfruttato sin dai tempi de “L’uomo” e, ancor più malignamente, molti addetti ai lavori videro in “El Tor”, un ideale propaggine di Palepoli.

Certamente, tra i solchi dell'album si coglie una maggiore rilassatezza rispetto appunto a Palepoli, ma questo non ne sancì necessariamente un valore, anzi: non furono in pochi a sostenere che una tale oniricità rappresentò in qualche modo uno svilimento del sound primigenio.

Di questo “gap” artistico, si accorsero pubblico e critica che, nel 1975, trascurarono il lavoro dei Città Frontale sia musicalmente che commercialmente, provocandone infine lo scioglimento.

Personalmente - e a malincuore - , ritengo che “El Tor” fosse un disco poco sostenibile da molti punti di vista.
Pur se ben intenzionato, non riflettè quasi per nulla le tensioni del suo sistema di riferimento e anche se ben congegnato da un punto di vista strutturale, si perdette in una sostanziale disomogeneità stilistica.
Infine, pur se desideroso di restituire i drammi di una società dilaniata, non presentò sollecitazioni di rilievo quali furono quelle del rabbioso sax di D’Anna nell’”Uomo”.
In buona sostanza, “El tor” suona come un piacevole affresco di un sistema in transizione, ma senza coglierne alcuna particolarità, senza proporre alcuna alternativa e senza minimamente interfacciarsi con quella “ricerca di nuove vie” che nel 1975 era quanto di più pregnante ci fosse nel dibattito controculturale.
In questo senso, i Napoli Centrale furono sicuramente molto più propositivi.

Franchi, Giorgetti, Talamo: Il vento ha cantato per ore tra i rami versi d'amore (1972)

franchi giorgetti talamoMolti anni fa, quando il fenomeno delle conventions non aveva ancora rivoluzionato i prezzi dei vinili, frequentavo spesso un negozio in Piazza Sant’Agostino a Milano chiamato “Rossetti dischi usati(attivo ancora oggi), dove si poteva trovare ogni ben di Dio.
Un giorno entro e vedo il mio amico Maurizio, titolare del negozio, che traffica nervosamente con un LP in mano e biascica tra se e se:
“... e questo dove ca**o lo metto?”.

Mi interessai della situazione e alla fine dovetti ammettere che il vinile era effettivamente un po’ problematico da archiviare: non stava negli scaffali accanto agli altri nè in verticale nè tantomeno in orizzontale, e occupava un sacco di spazio. Per esporlo bisognava appoggiarlo da qualche parte, senza però poterlo imbustare in maniera standard.

Alla fine, lo avvolgemmo delicatamente un sacchetto trasparente e lo appendemmo al soffitto pinzato a due molette.
Poi, dopo qualche giorno, decisi di sollevare Maurizio da qualunque ulteriore grattacapo e me lo portai a casa per la rilevante cifra di 12.000 lire. Non poco per l'epoca.

L’album in questione era “Il vento ha cantato per ore tra i rami versi d’amore” del trio Franchi – Giorgetti - Talamo inciso nel 1972 per la Produttori Associati di Antonio Casetta.

Che cosa avesse mai avesse di tanto strano, è presto detto.

La front-cover era una normalissima 30x30 apribile con un foro sulla parte frontale di circa 12 centimetri quadri (tipo “Io come io” ma quadrato, insomma) e fin qui, niente di speciale.

La geniale trovata del grafico Greguoli però, fu quella di incollare sulla terza di copertina una scatola di plastica a quattro scomparti delle stesse dimensioni del foro in modo che potesse passarci in mezzo, ma profonda circa 5 centimetri. Il che ovviamente, rendeva il disco ostico a qualsiasi archivista.

Il gadget conteneva sabbia, peperoncini e minuteria metallica ed era piuttosto fragile, tendeva spesso a rompersi o a deformarsi e va da se che a quasi 30 anni dall’uscita del disco, trovarne un esemplare perfetto ha dei costi piuttosto elevati. Diciamo ben oltre i 1.000 euro.

i cuccioliCopertina a parte, il trio degli FGT si forma intorno ai primi anni ’70 sulle ceneri del gruppo beat varesino “I Cuccioli” di cui facevano parte oltre a Danilo Franchi e Vittorio Giorgetti, il tastierista Roberto Carlotto, poi noto col nome di Hunka Munka e il futuro Pfm, Flavio Premoli.

I Cuccioli avevano già ottenuto nel 1967 un buon riscontro col singolo “La strada che cerco” che sul lato B sfoggiava la cover italiana di “The Kids are alright” degli Who, ribattezzata “Tu non sai
Erano anche piuttosto attivi nella zona di Varese (furono spalla dei primi Pooh) ma, con l’avvento degli anni ’70, decisero di dare una svolta al loro sound.


Rimasti soli, Franchi e Giorgetti contattarono allora il chitarrista napoletano Oliviero Talamo e costituitisi a trio, iniziarono a perfezionare un nuovo repertorio che, dopo un diniego di Gino Paoli, attirò finalmente l’attenzione del produttore Roberto Danè.

Fallita la prima audizione, il gruppo si perfezionò, conquistò la fiducia della produzione e nel luglio del 1972, fu convocato a Roma negli studi “Ortophonic” di Ennio Morricone per lavorare sul suo primo LP con la collaborazione di Nicola Piovani e dei due turnisti Enzo Restuccia e Maurizio Majorana .
Tra l’altro, malgrado la scarsa notorietà del trio, la “Produttori Associati” investì nel disco una cifra non indifferente - circa 20 milioni dell’epoca - e perlomeno da un punto di vista tecnico, possiamo tranquillamente affermare che fu uno dei migliori prodotti del ’72.


il vento ha cantato per oreMusicalmente invece, gli 11 brani dell’album restarono piuttosto distanti dalla nascente onda progressiva, mischiando elementi underground con soffici atmosfere cantautorali ispirate alla West Coast, e
omogeneizzando il sound con larghi interventi orchestrali.

L’incipit era sostanzialmente imperniato sullo svolgimento di quattro temi (Oppressione, Liberazione mancata, Intolleranza e Amore) laddove però l’intelligente acume poetico e sociale, non trovò altrettanta corrispondenza in una forza innovativa dal punto di vista musicale (es: “L’amore racconta”).

Inoltre, pur se confortati da vendite discrete e dall’interessamento mediatico di Renzo Arbore, gli FGT non dimostrarono curiosamente alcun interesse nel prosieguo della loro carriera professionale.
Morale: dopo due singoli promozionali (di cui “In cinque m’han legato le mani" che partecipò al Disco per l’estate del 1973), risolsero il contratto con la Produttori Associati per continuare la loro carriera sino a oggi, ma in maniera indipendente.
Così “Il vento...” rimase un feticcio di nicchia e materia per collezionisti.

Di certo, va notato che fu uno dei primi prodotti “trasversali” rispetto al nascente Prog e che comunque, vantò di una produzione per l’epoca invidiabilissima.

A conti fatti però, solo la sua copertina piuttosto che la sua musica, è diventata una leggenda degli anni ’70 italiani.

Rovescio della medaglia: Contamination (1975)

rovescio della medaglia contamination 1975Nella seconda metà degli anni 70, la smania delle discografiche di pubblicare versioni estere dei nostri dischi Prog sembrava inarrestabile anche quando i gruppi erano in crisi, moribondi o addirittura sciolti.

Nel caso del Rovescio della Medaglia per esempio, l’album “Contamination– versione inglese dell’osannato Contaminazione del 1973 – uscì nel 1975 quando la band era già stata abbondantemente rivoluzionata.

In questo senso, ricordiamo che nel dicembre del 1973 il Rovescio fu messo in ginocchio dal furto del suo potentissimo e costosissimo impianto (parcheggiato in un autotreno in Via Trionfale a Roma) che rappresentava non solo un essenziale strumento di lavoro, ma anche un vanto nazionale in quanto nessun’altra formazione possedeva una strumentazione del genere.

A poco o niente, se non alla solidarietà umana, servì il concerto di beneficenza del 31 gennaio 1974 a sostegno dei cinque sfortunati: il cantante Pino Ballarini in preda a forte depressione riparò in Svizzera, sostituito per qualche tempo dal diciassettenne ex Semiramis Michele Zarrillo, e i supestiti prosegurono come gruppo strumentale con l’aiuto di vari amici tra cui i transfughi dai Napoli Centrale Mark Harris e Tony Walmsley.

Tempo ancora un prescindibile 45 giri, qualche concerto minore e l’avventura sarebbe finita.


Dunque, se c’è una cosa che viene spontaneo chiedersi è a quale scopo la Rca decise di pubblicare “Contamination” in Usa e in Inghilterra.
Inoltre, anche ammettendo un clamoroso successo di vendite, quale line-up sarebbe partita per una tournèe anglo-americana e con quale cantante?

stefano d'ursoFortunatamente per noi, malgrado le ottime critiche ricevute, il modesto riscontro ottenuto dal disco ci esime dal rispondere a molti interrogativi.

Si dica pure che l’operazione discografica fu molto più assimilabile a un disperato tentativo commerciale che non a un concreto progetto artistico.
A prova di ciò si noti che, come per molte “sedicenti” versioni per il mercato estero (es Maxophone), anche “Contamination” consistette semplicemente in un timido remixaggio delle matrici originali dove ciò che cambiava era semplicemente la lingua del cantato e, considerando che in questo caso di parti vocali ce n’erano davvero poche, ritengo non si sia trattato di un grosso sforzo produttivo.


Non a torto, un acuto osservatore di Progarchives fece notare che “unlike some of the other bilingual works of their Italian friends, this one is almost a perfect mirror of the original.


rovescio della medagliaLa stessa copertina del disco americano, neppure apribile, non aveva nemmeno lontanamente la valenza grafica di quella dello Studio Impigla-Mancini che almeno richiamava visualmente il contenuto dell’album.

Comunque meglio così: malgrado la proverbiale potenza, Ballarini ha una pronuncia sensibilmente borgatara che rivela tutti i suoi limiti in “Isolation Ward” (“Alzo un muro elettrico”) e probabilmente i coristi dovevano essere ancora peggio, visto che le loro parti vennero sopraffatte da elefantiache dosi di riverbero.

Anche in questo caso dunque, il nostro Prog anglofono dovette sopportare critiche quali: “the English language doesn't come naturally for these guys”.

Per il resto, nulla da dire.
La versione inglese e quella originale combaciano praticamente in tutto e per tutto al punto di far sembrare la prima una brutta fotocopia (anzi, una "bad xerox") della seconda.


Personalmente credo che, considerato lo stato in cui si trovava il Rovescio nel 1975, non ci saremmo potuti aspettare molto di più.

Etna: Etna (1975)

etna etna 1975Ci sono alcuni gruppi del Progressive italiano che stabilirono dei records.
I De De Lind per esempio, hanno inciso l’album col titolo più lungo, Balletto e New Trolls con quello più corto. 

Gli Albero Motore hanno pubblicato in meno di sei mesi lo stesso Lp con due labels diverse.
Gli Area detengono il maggior numero di concerti in un anno, mentre i Cherry Five entreranno nel Guinness per aver dato alle stampe un vinile senza mai essere esistiti come band.


Il gruppo dei fratelli Marangolo invece, accede di diritto al libro dei primati per essere stata l’unica band italiana a pubblicare con la medesima formazione tre album in cinque anni cambiando ogni volta il proprio nome: Flea on the Honey (1971), Flea (1972) e infine Etna (1975).

Un segno evidente che il quartetto siciliano aveva talmente tanta voglia di suonare insieme, da non curarsi troppo né della propria collocazione commerciale, né tantomeno della distribuzione discografica che, guarda un pò, avvenne anch’essa con tre etichette distinte: prima la Delta, poi la Fonit e in ultimo la Catoca.

 

Comunque, non c’è molto da stupirsi di tutto questo gran carosello di nomi, etichette e distributori, considerando che i due Marangolo, Volpini e Pennisi avevano capacità strumentali talmente sopraffine da far supporre che l’avventura Flea on the honey / Flea / /Etna fosse solo una parentesi amicale della loro carriera che non avrebbe precluso altre situazioni paralleleNon a caso, subito dopo la pubblicazione di “Topi o uomini” (1972), il bassista Elio Volpini raggiunse l’Uovo di Colombo, il tastierista Antonio Marangolo collaborò come session man all’album della Famiglia degli Ortega (1973) e il batterista Agostino Marangolo (sempre spalleggiato da Antonio) iniziò a porre le basi per la sua futura stagione coi Goblin che si concretizzò definitivamente a partire dal 1975 sostituendo Walter Martino (figlio del popolare crooner italiano Bruno Martino).
Lo stesso Pennisi, che aveva sostituito all’occorrenza Morante, entrerà a far parte dei Goblin nel 1979.
antonio marangolo etnaIn tutto questo turbinio di collaborazioni comunque, i quattro non dimenticarono la propria dimensione solidale e trovano il tempo di ricomporsi nel 1975 per dar vita ad un nuovo progetto discografico, questa volta sotto il romantico nome di “Etna - con chiaro riferimento alle proprie origini siciliane - e affidato alla microscopica etichetta Catoca, distribuita dalla Fonit.

Da “Topi o uomini” sono passati ormai tre anni -che nel prog Italiano corrispondono a un'era geologica - e i risultati si sentono.
L'asprezza dei Flea tutta impuntata sui potenti riffs chitarristici di Pennisi (“L’angelo timido”) e sull’incessante lavoro di Antonio Marangolo (“Sono un pesce”), ha lasciato il posto ad una musicalità più matura e compatta.

I brani del nuovo Lp sono sette, tutti strumentali e tutti intitolati in Inglese - probabilmente più per comodità che per una reale esigenza artistica – e si innestano in quel filone jazz-fusion che aveva già preso piede da un anno e stava lentamente affiancandosi al Prog più puro.

Il disco, dicevamo, sembra più un “biglietto da visita” che non un’opera a se stante: pare quasi che i quattro amici abbiano voluto non solo testare a che punto fosse arrivato il loro affiatamento dopo tre anni di collaborazioni, ma soprattutto darsi l’un l’altro la conferma di una sopraggiunta consapevolezza artistica.

Anche graficamente non vi sono molti orpelli: la copertina è semplicissima e neppure apribile e
tutto il kernel è concentrato sulla musica.
 

Le ispirazioni sono molte, a partire dai Weather Report pre-Pastorius al tipico utilizzo del Piano Rhodes, ma la solarità genetica degli Etna conferisce a tutto il lavoro una particolare vena di mediterraneità che da un certo punto di vista, farà scuola precedendo pe esempio, i futuri lavori del Baricentro.

agostino marangolo etnaMusicalmente, sin dal primo pezzo “Beneath the geyser”, lo svolgimento si rivela chiaro e determinato: tempo per un fill-in di 40 secondi di “Tony” Marangolo, e il disco è già a pieno regime in un vulcanico jazz-rock che coinvolge senza sosta tutto il gruppo.I musicisti, si sente, suonano in piena scioltezza e non si fanno mancare nulla: momenti rock (“Beneath the geyser”), rumoristici (“Across the indian ocean”), funky e free in “South east wind - a cui si suppone il Baricentro si sia ispirato non poco - leggeri aromi brasiliani in “Golden Idol” e straordinari interventi solisti nei quali Carlo Pennisi dimostra di essere cresciuto esponenzialmente rispetto a “Flea”.
La conclusiva “Barbarian Serenade” è un gioiello di maestria esecutiva e di equilibrio armonico.
 

Rimane contestabile solo una certa derivatività rispetto a certi modelli esteri che, va da sè, erano avanti di secoli.
Se però consideriamo Etna come un album nato “per amicizia”, per “auto-definizione” e soprattutto avulso delle maglie commerciali, non sorprende come ciascuno dei componenti del gruppo sia ancora oggi un’autorità negli studi di registrazione italiani.

I.P. Son group: I.P. Son group (1975)

i.p.son group 1975Dopo un convincente esordio come discografico e produttore nel 1974 a fianco degli Albero Motore, il popolare rocker Ricky Gianco conferma le sue doti artistiche e manageriali creando una nuova etichetta discografica a distribuzione RCA l’”Ultima Spiaggia”, allo scopo di diffondere le realtà più innovative della musica d’autore italiana.

Ideologicamente vicina allla sinistra autonoma ed estremamente sensibile alle problematiche sociali, la nuova label si distinguerà sin dai primi due dischi in catalogo: lo straordinario “Quelli che...” di Enzo Jannacci e il caustico “Uoaei” che lancia il giovane e promettente Ivan Cattaneo e passa alla storia per essere stato il primo album di gay-rock degli anni ’70.

Negli anni successivi poi, l’Ultima Spaggia produrrà altri piccoli gioielli quali i primi lavori di Roberto Colombo (oggi compagno dell’ex Matia Bazar Antonella Ruggiero, ma allora collaboratore di Patti Pravo), l’epocale “Ma non è una malattia” del poeta Gianfranco Manfredi, “Rapsodia Meccanica” di Francesco Currà, “Disoccupate le strade dei sogni” di Claudio Lollli e uno splendido “uno-due” dello stesso Gianco con “Alla mia mam...” (1975) e il suo capolavoro assoluto: lo struggente “Arcimboldo” (1978).
Sempre dotati di una grafica intelligente e personale, i dischi dell’Ultima Spiaggia si distinsero per abbracciare nei loro solchi qualunque “diversità sonora” potesse risiedere nel panorama delle nuove creatività, sino ad arrivare, nel caso degli I.P. Son Group, al uno dei primi esperimenti di miscellanea interrazziale.

ip son groupCertamente già alcune bands del passato avevano ospitato musicisti di colore nei loro dischi (pensiamo solo al percussionista indiano Ramasandiran Somusundaran che suonò nei Procession e nella Bambibanda e Melodie o al brasiliano Mandrake nei Perigeo), ma di norma si trattava solo di “contributi esotici” ad una musica che rimaneva fondamentalmente bianca.
Inoltre, anche là dove le note si facevano più “africane” come nel caso di Nadma e Aktuala, la maggioranza degli esecutori era sempre di origine europea.

I.P.Son Group, fu invece un gruppo realmente misto dove ai tre musicisti milanesi Marco Rossi, Marco Merilli e Alberto Tenconi, si affiancavano i due percussionisti africani Nick Eyok e Mohammed El Targhi.
Non solo: tutto il primo album della band (inciso due anni prima ma pubblicato solo nel ’75 quando il quintetto si era già diviso) restituiva un sound marcatamente extra-europeo e dotato di una certa fascinazione, praticamente inedita considerato l'anno di pubblicazione.

Purtroppo però, al di là delle buone intenzioni e dell'indubbia sincerità artistica, l’album non funzionò, procurando alla discografica di Gianco il suo primo flop commerciale, tanto da essere ancora oggi assai ricercato nel mondo dei collezionisti.
A parte il precoce scioglimento della band che ovviamente ne impedì la promozione, il problema principale fu che “I.P. Son Group” non riuscì nemmeno per un attimo a restituire quella modernità che ci si aspettava.

ipson groupQuesto perchè tutti e nove brani del disco, sembravano (ed erano) di fatto delle altalenanti sequenze in stile meticcio che richiamavano largamente quelle già stra-abusate e stra-sentite in migliaia di raduni freaks (si immagini un misto tra gli Aktuala e i Grateful Dead) o comunque, richiamavano un groove che avrebbe potuto essere attendibile due o tre anni prima, ma non certamente nel 1975.
In questo senso, anche i pezzi a struttura più variegata (“Raggio di sole”) non riuscirono a scrollarsi di dosso le loro radici post-underground appesantendo non poco tutto il lavoro.
Ci si aggiunga anche una certa noia timbrica
(es. in “Sahara”) dovuta un po’ all’incisione leggermente cavernosa e un po’ alla limitatezza della line-up , e si otterrà un disco infelicemente prolisso e non del tutto attraente.

Detto ciò non vorrei che si pensasse che la scelta di Gianco di produrre questa band non fu quantomeno originale o coraggiosa, ma come abbiamo già spiegato nella scheda storica del ’75, il linguaggio controculturale aveva preso tutta un’altra piega rispetto alla cultura freak, ormai quasi completamente dimenticata.

Pfm: Chocolate kings (1975)

chocolate kings 1975Dopo due dischi cantati quasi interamente in inglese (“The world became the world”, “Live in Usa”), uno strepitoso successo oltreoceano e un cambio di nome in funzione del mercato estero, era ormai palese che le attenzioni della Premiata Forneria Marconi (ora P.F.M.) si rivolgessero molto più all’America che non all’Italia.

Di fatto, per realizzare il nuovo LP, la band si dotò finalmente di un cantante di ruolo che non solo aveva vissuto a lungo negli States, ma che possedeva una notevole dimestichezza con la lingua e la pronuncia anglofona: Bernardo Lanzetti degli Acqua Fragile.

Inoltre, a conferma delle intenzioni colonizzatrici di Mussida e soci, questa volta il nuovo album “Chocolate Kings” venne cantato completamente in inglese, lasciando all’Italia la sola distribuzione nazionale.
Tutto il resto, era appannaggio di un’organizzazione molto più ampia che, oltre all’Inghilterra, gli Usa, il Canada e la Francia avrebbe incluso anche il lontanissimo Giappone.

In Italia, la Pfm cominciò a farsi vedere sempre di meno anche dal vivo, dividendosi tra due tournées all’estero (in Giappone dal 19 al 30 novembre 1975 e in Canada dal 5 al 12 dicembre) e circa 18 date italiane tra luglio e agosto, ma prevalentemente in luoghi di villeggiatura.
La vera e propria tournèe italiana del '75, si limitò a sole sei date in Lombardia e in Veneto tra il 23 e il 30 dicembre.

Comunque, malgrado l'enorme dispendio di mezzi e di fatica che la band profuse per conquistare l'America, non tutto andò per il verso giusto e sorprende ancora oggi come il gruppo avesse optato per alcune soluzioni che si rivelarono davvero inopportune.

La prima, fu sicuramente il tono sarcastico impresso al nuovo lavoro che, tanto per cominciare, si presentava con una copertina piuttosto irriverente nei confronti della bandiera americana: una tavoletta di cioccolato rivestita dalla “Stars and Stripes”.

E se per “chocolate kings” si intendevano bonariamente i soldati americani che quando liberarono l’Italia dal fascismo, entrarono nelle città distribuendo barrette di cioccolata, il resto della canzone era invece tutta protesa a dipingere l’America come la culla della decadenza capitalista.

The chocolate kings arrived / to feed us full of good intentions /and fatten us with pride [...] so sorry /they've packed her bags [...] hope she takes a look in the mirror /while she is on her way home [...] her supermarket kingdom is falling / her war machines on sale [...] her tv gods have failed [...] musclemen are out of business / the chocolate kings are dying [...]

Il secondo inciampo, fu poi la partecipazione della Pfm ad un concerto in favore dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Una scelta politicamente al passo coi tempi, ma per altri versi sciagurata visto che tutto il management americano della Pfm era in mano agli ebrei ("... anche un po' sionisti", aggiunse Pagani).
Questi, non solo tagliarono i ponti con la band, boicottarono la distribuzione del disco e diedero vita a una caustica campagna denigratoria a mezzo stampa (“La Pfm supporta i terroristi”), ma misero anche il veto a qualunque eventuale successiva tournèe americana.

Ora, pur avallando le posizioni movimentiste di Pagani e di Lanzetti che avevano scritto i testi, non si comprende davvero come la Premiata pretendesse di conquistarsi un mercato prendendosene gioco.

Morale, “Chocolate Kings” scontentò tutti: gli americani per ovvi motivi, gli italiani che si sentirono traditi da uno dei loro gruppi di punta e gli stessi musicisti che non solo videro infrangersi il sogno statunitense, ma per questa ed altre ragioni, patirono di li a poco la dipartita di Pagani che si sentì politicamente incompreso.

Un vero peccato perchè, in fondo, l’album del 1975 era un lavoro ben strutturato e sicuramente avrebbe potuto aprire nuove porte al sestetto ma, si sa: a volte tenere i piedi in due scarpe non paga.

Furono quindi snobbate le solide atmosfere di “From under”, il poderoso boogie-prog di “Chocolate Kings”, le splendide evocazioni di “Out of the roundabout” e, a posteriori, possiamo purtroppo rilevare che quelle furono le ultime cartucce della Pfm in chiave progressiva.

Già a partire dal successivo Jet Lag, il gruppo entrò in una profonda crisi artistica che sarebbe sfociata nel giro di pochissimo nelle forma canzone di “Suonare suonare”.
Un percorso quasi sicuramente inevitabile, ma che forse, avrebbe potuto essere gestito più serenamente.


PREMIATA FORNERIA MARCONI - Discografia 1972 - 1978:
1972: STORIA DI UN MINUTO
1972: PER UN AMICO
1973: PHOTOS OF GHOSTS
1974: L'ISOLA DI NIENTE
1974: THE WORLD BECAME THE WORLD
1974: COOK - LIVE IN USA
1975: CHOCOLATE KINGS
1977: JET LAG
1978: PASSPARTU'