Lydia e gli Hellua Xenium: Diluvio / Conoscevo un uomo (1974)
Gli Hellua Xenium prorompono violentemente in un doom rock pesante, massiccio e tempestato da chitarre distorte, organo impazzito, batteria centrifugata e nientemeno che delle folate di vento e dei tuoni sintetizzati dalla violenza inaudita.
Diversa è invece “Conoscevo un uomo”. Dopo una fulminea citazione alla Fuga in Re minore di Bach, arriva subito il canto melodico e profondo di Lydia che però, pur nella sua consueta fluidità, questa volta è più ammiccante, se così si può dire.
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Enzo Jannacci: "Il monumento" (1975)
Il nemico non è oltre la tua frontiera.
Il nemico non è al di là della tua trincea.
Il nemico è qui tra noi,
mangia come noi, parla come noi, dorme come noi, pensa come noi,
ma è diverso da noi
Il nemico è chi sfrutta il lavoro e la vita del suo fratello.
Il nemico è chi ruba il pane e la fatica del suo compagno.
Il nemico è colui che vuole il monumento per le vittime da lui volute
e ruba il pane per fare altri cannoni.
E non fa le scuole
e non fa gli ospedali
per pagare i generali
Per un'altra guerra.
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Napoli Centrale: Napoli centrale (1975)
Siamo nel 1975 e il Rock Progressivo Italiano si sta rapidamente trasformando.Sin dall'anno precedente infatti, molte bands della prima ora si erano sciolte o riconvertite sotto i colpi di una stridente situazione politico-economica che chiedeva a tutti gli artisti un maggior impegno sociale.
In più, i cantautori stavano conquistandosi lo scettro della comunicatività, e per molte bands era subentrato l'obbligo di interagire diversamente con gli ascoltatori: sia nel linguaggio, sia nello stile.
I risultati non si fecero attendere (Città Frontale, Bardi, Cattaneo, Capuano, Ultima Spiaggia) ma, se da un lato il Pop italiano acquisì una maggiore consapevolezza, dall'altro perse definitivamente i suoi connotati originali per entrare in una nuova stagione.
Che piova o che esca il sole, chi è bracciante a San Nicola / con la bottiglia piena di vino / va tutti i giorni a zappare. Campagna ... com'è bella la campagna…
...ma è più bella per il figlio del padrone della terra / che ci viene ogni giorno / a divertirsi con gli amici…Campagna ... com'è bella la campagna…
Con queste parole iniziava il primo disco omonimo dei Napoli Centrale e chi lo ascoltò all'epoca, capì subito che si trattava di un lavoro rivoluzionario in cui il Prog c'entrava solo marginalmente: testi di forte denuncia sociale, un potente groove jazz rock in cui il sax sostituiva la chitarra solista, prevalenza del piano Fender sulle tastiere, pochi arzigogoli, una sanguigna anima popolare e uno spietato canto in lingua Napoletana che non solo calzava perfettamente al contesto narrativo, ma assurgeva al ruolo di un vero e proprio strumento musicale.Anticipato dal vendutissimo singolo "Campagna", l'album includeva sei brani di cue due strumentali, estremamente omogenei e tutti coesi dal medesimo spirito di denuncia. Tra tutte, la dilaniante "Gente a' Bucciano".
"Lassù al Nord c'è gente che viene da Bucciano / là dove una volta zappava la terra sputando sangue e salute. /
Ma la fame è più forte dell'amore per la terra / e la gente di Bucciano ha dovuto emigrare al Nord per lavorare nelle fabbriche. /
Là sputa lo stesso sangue e salute e in più, / si sente fottuta.
Musicalmente, i fiati e la voce di James Senese si alternano su un tappeto elettrico intessuto dal Rhodes di Mark Harris, su cui il bassista Tony Walmsley e il batterista Franco del Prete modellano una complessa struttura ritmica, pur senza risultare mai invasivi.Il Prog non lo si riscontra quasi più: solo in certe sfumature probabilmente sopravvissuti nel Dna di Harris e di Senese, o comunque dall'appartenenza alla città di Napoli, che ne fu una delle culle più importanti.
L'evaporazione dei vecchi canoni però, era evidente nel dominio di un linguaggio sonoro che dal '75 in poi, avrebbe contraddistinto tutto il nuovo Pop italiano.
"Napoli Centrale" fu insomma uno degli album seminali della seconda generazione del Prog, esattamente come lo fu Palepoli per la prima.
LA FOTO CHE RITRAE I NAPOLI CENTRALE DAL VIVO NEL 1975 E' TRATTA DAL SITO WWW.MARKHARRIS.IT
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Napoli Centrale: Mattanza (1976)
Nel 1976 il movimento è più che mai attraversato da soggettività diverse e se da un lato questa policromia sociale ne avrebbe in breve tempo minato la stabilità, dall’altro ne arricchiva sicuramente la potenza sovversiva e la complessità delle sue produzioni.
Intanto, nelle grandi metropoli post-industriali quali Milano, Roma o Torino, il flusso immigratorio si è assestato. Molte delle diffidenze del primo periodo si sono appianate e il tessuto umano delle città sta gradualmente assumendo quella poliregionalità che negli anni successivi assumerà connotati transnazionali.
In un contesto del genere, è dunque piuttosto chiaro come in molte città fossero ormai pienamente praticabili (se non necessari) discorsi a livello "regionale" e questo non solo a livello di feste poplari o per intrattenere nostalgicamente un pugno di immigrati, ma con lo spirito di modernizzare un linguaggio proseguendo sulla strada da tempo inaugurata dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare e dal Canzoniere del Lazio.
Di fatto, da un punto di vista musicale cominciano a consolidarsi realtà che sino ad allora avevano faticato ad imporsi e che tecnicamente, si pongono come il superamento del Prog classico ormai contaminato da altri generi tra i quali funk e musica etnica o popolare.
In sostanza non si tratta più, di superare l’antitesi “avanguardia-tradizione” in maniera colta come fecero gli Opus Avantra o i Pierrot Lunaire, ma di adeguare un idioma sino ad allora reputato “folclorico” alle nuove domande di una società in trasformazione.
A partire dal 1975, il gruppo che testimoniò meglio l’efficacia di questo mix tra "vox populi" e modernità, fu sicuramente Napoli Centrale che reduce da un primo riuscitissimo album nel 1975, arrivò l’anno successivo alla seconda prova su vinile: “Mattanza”.
Rispetto al disco d’esordio, resiste lo zoccolo duro della formazione composto da Senese e Del Prete, mentre Tony Walmsley e Mark Harris se ne vanno per militare nel moribondo Rovescio della Medaglia.
Mark Harris venne sostituito dell’ottimo pianista catanese Pippo Guarnera e al posto di Tony furono valutati prima diversi bassisti tra cui Giovanni Ferla, Pino Daniele e Bruno Limone. Alla fine però, la spunterà il musicista di Trinidad Kevin Bullen, futuro apprezzatissimo session man.
A chiudere il cerchio e in perfetta linea quell’ottica “estensiva” di cui parlavamo prima, in “Mattanza” vennero impiegati anche numerosi turnisti che diedero all’album un sapore ancora più avvincente: Agostino Marangolo dei Flea e dei Goblin, Bruno Biriaco dei Perigeo e Marvin Smith, già allievo di Max Roach e di Elvin Jones.
Un cast di tutto rispetto che non solo licenziò un disco apprezzato e vendutissimo, ma che catapultò il gruppo direttamente dal Festival del Parco Lambro al prestigioso Festival Jazz di Montreux.
Pubblicato nel 1976 dalla Ricordi con una copertina apribile e levigato sino ai minimi dettagli, “Mattanza” non raggiunse forse il pathos del primo Lp, ma si rivelò certamente più maturo e compatto.
I suoni sono curatissimi, il disco si prende pure un premio giornalistico per la “migliore registrazione dell’anno” e forse non tutti sanno che a pilotare la consolle del fonico c’era un certo Roberto Satti, allora proprietario degli studi Chantalain e più noto al pubblico col nome di Bobby Solo.
Pare che James Senese gli abbia detto: “anche se tu non sei un tecnico perfetto, hai l’orecchio musicale e noi ci fidiamo di te” (fonte: ilpopolodelblues.com).
Musicalmente è stato detto che il disco “non aggiunge nulla di nuovo a quello precedente”, ma personalmente andrei cauto con certe affermazioni: basterebbe ascoltare solo un brano come “Sangue Misto” che oltre a rifarsi esattamente alla società di allora (conflittuale e diffidente), da segni di una compattezza e di una curiosità stilistica davvero non comuni.
Certamente sono forti i riferimenti ai Weather Report, ma la personalità di Senese e l’abilità collettiva del gruppo riesce a restituire un quadro "made in Italy" assolutamente degno del miglior panorama internazionale.
La mediterraneità e il sentimento sono invece affidati a “O nonno mio”: il ritratto di un funerale paesano in cui però "pietas" e concretezza si mescolano sino a superare i confini dell’anima, rendendo i Napoli Centrale una delle più valide realtà italiane di quegli anni.
Molti associarono "Mattanza" alla fine di un'epoca.
In realtà, ne stava cominciando un'altra.
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Napoli Centrale: Qualcosa cca nu'mmore (1977)
Poco prima di chiudere la fase più progressiva della loro carriera, i Napoli Centrale pubblicano nel 1977 l'album “Qualcosa ‘cca nu’ mmore” che se da un lato si rivela uno dei loro lavori più energici e stridenti, dall’altro denota un sempre maggior spostamento verso il jazz (es: “O specchio addo‘ me guardo"), lasciandosi così alle spalle un po’ di quella immediata comunicatività degli esordi.
Se infatti nel primo album “Napoli Centrale” si aveva l’impressione di trovarsi di fronte a un collettivo compatto sia musicalmente che ideologicamente, in questo frangente siamo invece al cospetto di un vero e proprio gruppo jazz in cui la preponderanza di James Senese (unico superstite della formazione originale insieme al fido batterista Franco del Prete) gli conferì definitivamente l'indiscusso ruolo di capo-orchestra.
Rispetto ai primi due lavori dunque, è un altra Napoli Centrale quella che si ascolta in Qualcosa ‘cca nu’ mmore laddove per le registrazioni, Senese si avvale nuovamente di numerosi musicisti esterni, ma che questa volta sono chiamati ad esprimersi in un linguaggio quasi esclusivamente jazz: Ciro Ciscognetti, ex tastierista di Fabio Celi e gli Infermieri -qui tra l’altro in splendida forma-, un secondo tastierista Pippo Guarnera già con Napoli Centrale nel 1975 e poi andatosene temporanemente con Finardi, nonché un giovane bassista di belle speranze di nome Pino Daniele che di lì a poco diverrà l'alfiere più raffinato della musica napoletana d'autore.
Sebbene però, come dicevamo, il disco del 1977 fosse suonato a livelli altissimi, ascoltando la sequenza dei brani emerse in modo piuttosto drastico l’urgenza di un cambiamento programmatico: o riportare la band verso la conflittualità del passato, o verso una strada ancora più tecnica e sperimentale.
E se musicalmente Senese e soci avevano fatto passi da gigante e il “Sonny Rollins di Napoli” dimostrò costantemente di avere sempre più fiuto nel scegliersi i compagni e soprattutto classe da vendere, da un’altro punto di vista le sue performances, specie quelle vocali, iniziavano a suonare ripetitive, quasi come se si fossero eternamente arroccate al sound di “O nonno mio”.
Con questo non voglio dire che Qualcosa ‘cca nu’ mmore sarebbe stato più coerente se fosse stato solo strumentale, ma che le parti cantate avrebbero potuto anche limitarsi al primo folgorante brano d’apertura “O nemico mio”, vero e proprio capolavoro dell’album. E questo perchè a conti fatti, il sound complessivo di quest'ultimo lavoro fu effettivamente una coazione al ricalco delle intuizioni sviluppate nei primi due.
Allo stesso modo, molto autoreferenziale sembrò anche il pezzo di chiusura “Nun song na vacca” che pur riciclando i fasti di “Mattanza” ne ricalcava telmente il groove da lasciare l’ascoltatore perlomeno ansioso di qualche ulteriore novità.
E queste considerazioni le fecero probabilmente anche gli stessi Senese e Del Prete che malgrado le ottime prove su vinile e dal vivo, decisero di sciogliere i Napoli Centrale andandosene ciascuno per la sua strada.
Com'è noto, i frutti migliori dello scisma, li raccolse il bassista Giuseppe “Pino” Daniele che in quello stesso anno avrebbe esordito con il suo “Terra mia”, calamitando a se il meglio dei musicisti napoletani, Senese incluso.
Onnipresenti nei Festival Pop del movimento e rispettati da chiunque, i Napoli Centrale ebbero comunque il grande merito di traghettare la cultura popolare a livelli musicali elevatissimi, mantenendone però lo spirito ribelle e comunicativo.
La loro apertura mentale inoltre, fece anche si che nelle loro fila transitassero o si facessero le ossa musicisti di primissimo ordine (da Ernesto Vitolo a Gigi de Rienzo per non parlare dell’ex Flea Agostino Marangolo e dello stesso Pino Daniele) facendo così assurgere la band a una vera e propria fucina di talenti.
Ceramente il carattere duro e spigoloso del leader non aiutò molto il gruppo in materia di stabilità, ma il suo perfezionismo artistico gli permise di non scendere mai al di sotto di una certa qualità, al punto di consacrare la sua creatura come una delle migliori band del pop italiano.
Io stesso ribadii questo concetto a Mark Harris mentre eravamo insieme a cena in casa di amici e lui, col suo bell’accento del Connecticut mi rispose: “Naturalmente si! E' sato un periodo indimenticabile! Un'energia così non si è mai più rivista.”
Se non erro, fu quella l'occasione in cui gli regalai la mia copia di “Napoli Centrale” che Mark aveva perduto strada facendo.
COLLEZIONISMI: Album agevole da reperire. Quaranta euro è il massimo prezzo al quale l'originale dovrebbe essere ceduto in condizioni Mint.
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Jumbo: Dna (1972)
Rabbioso e acido, "Dna" è uno degli album che secondo il grande collezionista Paolo Barotto, non deve assolutamente mancare a un appassionato di rock italiano e in questo senso non gli si può dare torto, anzi: per molti appassionati di Prog Italiano questo disco è un capolavoro assoluto nel suo genere.
La sua pubblicazione segue di circa 10 mesi quella del primo album Jumbo, le cui 1.000 copie andarono esaurite in breve tempo e la sua architettura sonora rappresentò il vero e proprio salto della band nel mondo del Progressive Italiano. Un cambiamento che il chitarrista Daniele Branchini racconta così al collega Giancarlo Passarella:
"Direi un cambiamento quasi naturale: del resto tra il primo ed il secondo lp passa quasi un anno. Il tempo trascorso insieme e l’intenso lavoro svolto da tutti i componenti del gruppo, crea le condizioni per conoscersi meglio. Intesa, fiducia e comprensione sono cose che hanno bisogno di tempo per poter maturare, concretizzandosi in un lavoro di gruppo sempre più affiatato."
"Dna" però è molto di più di un semplice passaggio dalla primigenia "forma canzone" allo strutturato lavoro di gruppo. Di fatto, nel nuovo disco vengono anche poste le basi per un discorso poetico molto particolare che sarà poi il marchio di fabbrica dei Jumbo.
I testi denunciano in maniera sfacciatamente esplicita i problemi più reconditi del sistema post fordista e per giunta con un linguaggio crudo e senza mezzi termini ("hai visto i cani sbranare i tuoi figli, hai visto il mondo strisciare sullo sterco"), amplificato mille volte nella sua drammaticità della graffiante voce di Alvaro Fella.
Sottolinea ancora Branchini: "Sicuramente una presa di coscienza (ancora oggi latitante). Raccontare liberamente quello che tutti già sanno ma che nessuno dice per convenienza, ipocrisia, sfruttamento.Denunciare, condannare e rifiutare tutto ciò".
Si da il caso che l'impatto iniziale con questo lavoro sia davvero devastante per l'epoca e la lunga "Suite per il signor K", mescoli il gelido sarcasmo di suoi testi con grandi vampate strumentali a matrice hard che a tratti ricordano i migliori Atomic Rooster o i Jethro Tull.
Le tastiere e le chitarre, grintosissime, svolgono magistralmente la loro funzione armonizzante supportate da una solida sezione ritmica. Le invenzioni armoniche sono interessanti e, anche se la matrice blues è ancora molto evidente, non sono poche le parentesi in cui la band adotta delle soluzioni inedite e in parte avanguardistiche.
Certamente, per essere considerato un capolavoro, "Dna" mancherebbe fino a questo punto di una produzione più accurata, specie in fase di mixaggio, ma considerati i tempi fulminanti della registrazione (una settimana) gli si può anche perdonare questa manchevolezza.
Le due ballate in apertura del lato B ("Miss Rand" e "E' brutto sentirsi vecchi") danno seguito alla prima facciata ma con quel minimo di ripetitività che fece preferire a molti estimatori il successivo e più fantasioso "Vietato ai minori di 18 anni?".
Tuttavia, davvero encomiabili saranno ancora i primi quattro minuti della conclusiva "Hai visto"
in cui le innegabili capacità del sestetto milanese ci restituiranno un'ottima parentesi di delicatezza acustica prima di sfociare in un finale in stile Genesis sottolineato come al solito dagli acidi concetti a firma del cantante -autore Alvaro Fella.
Capolavoro del prog Italiano quindi?
Personalmente ho qualche dubbio, anche considerato che molti lavori più significativi si sarebbero presentati in questo campo. Tuttavia è fuori di dubbio che, vista la data di pubblicazione e il riscontro ottenuto dalla band, si possa collocare "Dna" tra gli album più originali del '72, sia come linguaggio che come architettura sonora.
In esso c'è però ancora molto retaggio degli stili precedenti (blues in particolare), un uso ancora derivativo di certe soluzioni timbriche e una certa rozzezza nella produzione: particolari che fanno ben sperare nella band milanese, ma che lasciano ancora un senso di incompiutezza.
Non a caso, tra chi preferisce quest'album e chi predilige il successivo, è acceso ancora oggi un vivo e serrato dibattito.
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Jumbo: Jumbo (1972)
ANTIPASTO DI CARTA VETRATA PRIMA DEL CAPOLAVORO PROG
Alvaro “Jumbo” Fella inizia a suonare la chitarra in piena era beat, spinto dalla passione per la musica, e specialmente per quei Beatles che avrà occasione di ammirare personalmente al Vigorelli di Milano.
Scrive le sue prime canzoni influenzato dalla poetica di De Andrè, e verso la fine degli anni sessanta forma il suo primo gruppo, Lo Stato d’Animo, in cui oltre al futuro batterista dei Jumbo Vito “Juarak” Balzano, militerà anche il chitarrista Roberto Giuliani, più tardi nei Maxophone.
Fella costituisce poi la Nuova Era insieme al tastierista Sergio “Samuel” Conte (anch’egli venturo Jumbo), e poco dopo entra nei Juniors, noti per essere stata la storica band di Gianni Pettenati.
E’ però la militanza di un anno nel gruppo dell’allora famosissimo Maurizio Arcieri - allora stanziale al Carta Vetrata di Bollate - che gli apre le porte della Numero Uno di Mogol-Battisti dove, pur se affiancato da musicisti di tutto rispetto (Di Cioccio e Premoli della PFM; Mario Lavezzi e Bruno Longhi dei Flora Fauna e Cemento), inciderà nel 70 due singoli decisamente prescindibili: “In estate”, cover italiana della celeberrima “In the summetime” dei Mungo Jerry, e “Montego Bay”.
Il riscontro è comunque buono, e così anche per Alvaro Fella arriva il momento di incidere il primo album, ma non lo farà per la Numero Uno. Le imposizioni di Mogol gli stanno strette, ha voglia di proporre materiale suo, e coglie quindi al volo l’invito dell’amico e produttore Silvio Crippa (nel frattempo passato dalla Numero Uno alla Philips) di mettersi al lavoro per l’etichetta olandese, all’epoca alle prese col lancio delle Orme appena covertitesi al prog.
Convocato nei Sax Studios di Milano nell’autunno del 1971, Fella seleziona quindi le sue migliori canzoni tra quelle scritte negli anni precedenti, ma anziché affidarle a turnisti a lui sconosciuti, preferisce convocare un gruppo di vecchi amici: Conte e Balzano innanzitutto, Daniele “Pupo” Bianchini alla chitarra, Aldo Gargano al basso e un certo Dario Guidotti al flauto che invece gli era stato presentato dal fonico Ezio De Rosa. Consulente esterno ai testi: Andrea Lo Vecchio, da tempo collaboratore di Crippa.La band incide nove canzoni, l’affiatamento funziona a meraviglia, e all’atto della pubblicazione, quello che avrebbe dovuto esere un disco del solo Fella, esce infine col nome collettivo di Jumbo.
Lungi dall’essere un Lp di rock progressivo se non in minima parte, l’album soffre ancora molto delle influenze battistiane, specie nella sua prima parte. Si rivela però estremamente innovativo per quanto riguarda i testi: crudi, espliciti, scomodi, e almeno di due anni in anticipo su quelli altrettanto rabbiosi della Controcultura. Una probabile eredità di Fella del primo De Andrè, leggibile per esempio in “Dio è”, ispirata a una poesia scritta negli anni sessanta da una sua amica morta giovanissima per un male incurabile.
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| ALVARO FELLA, 1972 |
In questo senso, si ascoltino “Oggi sarò là”, "Lei non conta niente" e in particolare in "Se solo tu mi amassi" che trasforma in vetriolo un blues teoricamente morbido e intenso, Più equilibrate invece “Dio" e "Strada che porta al fiume”, dove il lavoro di gruppo è molto più omogeneo.
In ogni caso, è sempre e comunque Fella l’ago della bilancia per l’intero gruppo: o lo si ama, e allora si accetta l’intero pacchetto, altrimenti si scarta tutto. E quest’ultima fu probabilmente la scelta di molti, almeno a giudicare dalle vendite del disco non certo eclatanti.
Per loro fortuna però, da un lato i Jumbo si rivelarono sempre molto coesi, e questo fu utilissimo per superare le prime difficoltà; dall’altro, veramente travolgenti dal vivo là dove il loro impatto in termini di sound e coscienza politica, faceva dimenticare qualsiasi manchevolezza.
Furono di fatto protagonisti di molti Festival Pop sul suolo nazionale, e trasmessi a rotazione persino da Radio Montecarlo e da Tele Capodistria che tributarono loro molta più attenzione e rispetto che non la censuratissima Rai.
Infine, grazie all’assidua militanza nei circuiti underground, assimilarono rapidamente anche un certo gusto per il progressive, e in soli 10 mesi terminarono quell’evoluzione artistica che si sarebbe concretata con il loro capolavoro DNA (Suite per il Signor K).
Una fiammata soltanto, ma dirompente al punto di entrare a tutto diritto nella leggenda del prog italiano.
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... NON HAI NEPPURE IDEA DI QUANTO CI MANCHERAI...
Non so neppure da dove cominciare.
Sono troppo sconvolto. Come credo lo siate anche voi.
Perché,
per chi ha visto la luce col primo album dei Beatles, ed è stato un
teenager che in Inghilterra (dove vivevo) ha divorato tutto il rock
possibile, Ozzy era al pari di una divinità. Come David Bowie, Marc
Bolan, Who, Kinks, Animals , Led Zeppelin e tutti gli altri che conoscete anche meglio di me.
Ma in particolare, Ozzy Osbourne è stato colui che ha
portato il miglior metal possibile alla portata di tutti, pur senza mai
scalfirne l'anima aggressiva e dannata. E non era cosa da poco.
Di
fatto, se i Led Zeppelin avevano come punto di forza l'equilibrio tra
potenza e meditazione, i Black Sabbath fecero ancora di più evocando
simultaneamente inferno e paradiso, chaos e nirvana. Non l'aveva mai
fatto nessuno.
Pensate solo al contrasto tra Fluff e War Pigs, Planet Caravan e Iron Man, Orchid e Children Of The Grave.
Paragoni che fatti oggi, sembrerebbero scontati, e invece no.
Ricordiamoci
per sempre che quei chiaroscuri li hanno inventati loro. I Sabs di
Birmingham. E Ozzy ne è stato l'insostituibile portavoce.
Prima
di Ozzy, Tony, Geezer e Bill c'erano l'hard blues inglese e americano. Gli Uriah Heep, i Vanilla Fudge e, al limite, qualche satanista
ante-litteram come Arthur Brown, Screaming Lord Sutch o gli ancora implumi Black Widow.
Ma nessuno mai, neppure lontanamente , ebbe la stessa devastante potenza conflittuale di Ozzy.
Era
chiaro che sarebbe stato lui il profeta degli inferi per tutte le
generazioni a venire, ma anche colui che li avvrebbe mutuati con
quall'amore umano che non rinnegò mai. Nè per i suoi fan, nè per la sua
famiglia, nè per i suoi fratelli più sfortunati, come confermò con la
sontuosa e sentita beneficenza della sua ultima apparizione pubblica.
Scusate
per la turbolenza queste parole scritte di getto e di cuore, ma piango
Ozzy esattamente come voi, e volevo condividere le mie emozioni.
Stiamo parlando di grandi geni che non solo ci hanno cambiato la vita,
ma ci fanno sentire ancora più motivati nel migliorarla.
JJ
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J.J. JOHN
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Ping Pong: Ping Pong (1973)

IN RICORDO DI CELSO VALLI (1950-2025)
Alan Taylor (Halifax 1947, Bologna 2011) è stato un bassista italo-inglese la cui passione per la musica iniziò sin dai tempi della scuola.
Successivamente, la sua vocazione prese una piega professionale quando entrò in un gruppo di Lincoln chiamato “The Casuals” con cui incise ben sette albums ed ebbe una grossa hit nel 1968 chiamata “Jesamine”, divenuta popolare in tutto il mondo.
Arrivati a Milano nella metà degli anni ’60 per una serie di concerti al Paip’s di Corso Europa, i Casuals vennero notati da Gino Paoli che non solo li volle come backing band, ma intercesse presso la Rai per farli partecipare al Festival di Sanremo: cosa che accade con il brano di Panzeri “Alla fine della strada”.
Esaurita l’esperienza con Paoli nel 1969, Taylor decise di stabilirsi definitivamente in Italia e in particolare a Bologna dove nel 1971 formò i Ping Pong grazie all’incontro col chitarrista Mauro Falzoni, il tastierista Celso Valli, il sassofonista Paride Sforza, e il batterista Vittorio Volpe.
Scritturata dalla Emiliana Records la band pubblicò nello stesso anno e con l’ausilio del fiatista inglese Alan King il suo primo 33 giri “About Time” che pur se di nicchia, ben rivelò le notevoli doti tecniche e compositive del quintetto che a questo punto, si dedicò all'attività dal vivo.
Notati questa volta dal produttore Alberto Carisch, già co-fondatore della RiFi e patron della Carisch e della MRC (in cui mossero rispettivamente i primi passi Pepppino di Capri e Caterina Caselli), i Ping Pong vennero poi scritturati nel 1972 per la sua nuova etichetta, la Spark, che tra l’altro sembrava offrire maggiori garanzie della precedente avvalendosi della distribuzione della solidissima Dischi Ricordi.

Arriva così nel 1972 il secondo lavoro a trentatrè giri “Ping Pong” in cui però, sin dalle prime note, si evince che nel prezzo da pagare al colosso discografico milanese, venne inclusa anche una parziale melodizzazione del sound originale.
Inoltre, un’ulteriore spinta verso un sound più riconoscibile venne fornita dal nuovo vocalist Giorgio Bertolani che da qusto momento in poi, connoterà uniformemente tutte le parti cantate.
Se quindi “About Time” poteva considerarsi un album meno levigato e più spontaneo, in “Ping Pong” emerse in maniera più che lampante una maggiore accuratezza, tangibile soprattutto nei tre brani melodici: “Il miracolo” che frutterà al gruppo un'apparizione televisiva nel 1975 nel programma “Adesso Musica” presentato dalla coppia Brosio e Fuscagni, “Caro Giuda” , cover di “A time for winning” dei Blue Mink e tradotta in Italiano da Roberto Vecchioni (che di lì a poco avrebbe fatto il botto con la sua “Luci a San Siro”) e infine “Cresciuta in un paese”, arricchita da parti orchestrali nel tipico stile della musica leggera di quel periodo.
Tuttavia, pur se l’inserimento di brani molto “di presa” potrebbe sembrare al primo ascolto un elemento banalizzante, i restanti cinque brani dell’Ellepì si distinsero invece per grinta e classe fugando ogni dubbio sulla potenziale massificazione dei musicisti.
Ad esempio, la lunga “Suite in quattro tempi” (10 minuti circa) è un pezzo molto stratificato che pur se non associabile al rock progressivo, propone intarsi stilistici estremamente raffinati e nondimeno un linguaggio articolato e misto che associa con nonchalance momenti jazz, acustici, lirici e meditativi per chiudersi addirittura con un siparietto finale anticipato da un lungo assolo di batteria.
Ne “Il castello ” emerge poi nientemeno una vena hard rock che compenetrata successivamente da un sound squisitamente jazz, lascia davvero stupiti per tanto coraggio stilistico.Emergono poi momenti acustici di stampo post-freak in “Viene verso di me” (sempre e al solito spezzati da incursioni jazz e persino da musica concreta) e “prog-free” come nel caso di “Plastica e petrolio” dove il cantante da sfoggio di una naturale poliedricità vocale.
In sostanza: in “Ping Pong” ci si trova proprio di tutto ma mai in maniera dispersiva: il sound del gruppo resta univoco malgrado l’ampia miscellanea di stili.
Ciò di cui si sente la mancanza è semmai una sorta di kernel percettivo, un “qualcosa” di univoco che al di là della solidità del groove, riconduca tutti i brani a una sola intenzionalità: fattore normalmente necessario per rendersi immediatamente riconoscibili e soprattutto per vendere dischi, cosa che in questo caso non accadde.
Le successive carriere dei musicisti ribadirono però che le loro indubbie capacità avrebbero dovuto presto sganciarsi dai limiti di un marchio di fabbrica per evolvere le singole capacità. E così accadde.
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Ping Pong: About time (1971)
IN RICORDO DI CELSO VALLI (1950-2025)
Su questo quintetto emiliano che ha inciso due album tra il 1971 e il 1973 e che si riciclò nel 1975 col nome di Bulldog (nove singoli in quattro anni) si sa ben poco, eccetto che nelle sue fila militò un ventunenne Celso Valli, futuro arrangiatore di "Self Control" di Raf, "Nell'aria" di Marcella, "Ti sento" dei Matia Bazar e fidato collaboratore di Mina, Renato Zero, Celentano, Pausini, Baglioni, Ramazzotti, Boccelli, Jovanotti e Vasco Rossi.
Tanto basta per prendere in considerazione almeno il loro primo album del 1971 che, al di là della sua minima visibilità, contenne delle intuizioni davvero interessanti.
Formatisi nei primi anni '70 tra Modena e Bologna, i Ping Pong annoveravano all'epoca Mauro Falzoni (chitarra, voce), Paride Sforza (sax, clarino), Vittorio Volpe (batteria), Alan Taylor (basso, voce - proveniente dal gruppo inglese dei Casuals) e lo stesso Valli (tastiere).
La loro prima esperienza discografica a 33 giri "About Time", ebbe luogo nel 1971 grazie all'interessamento dell'oscura discografica "ER - Emiliana Records", da qualche anno specializzata in liscio, melodico, blues jazz e canti partigiani.
Per cui, pur non avendo alcuna informazione a riguardo, si può intuire che ciò che portò il quintetto dall'anonimato alla sala d'incisione, fu quasi sicuramente una serie di relazioni amicali radicate nella vita di provincia.
Tuttavia, occorre anche sottolineare che, alla prova dei fatti, il gruppo si dimostrò più che apprezzabile sia da un punto di vista tecnico che compositivo, anche considerando l'anno di uscita del disco.
In pratica, "About Time" è una raccolta di 10 canzoni molto variegate per stile e per intenti. Sorprendentemente l'incisione è ottima e le esecuzioni dei vari brani palesano una solida omogeneità degli stumentisti che, in qualche episodio ("About Time", "Funny Wife"), dimostrarono anche di saper andare molto oltre gli stilemi dell'epoca.
Ben inteso, non c'è nulla di innovativo che accomuni i Ping Pong ai veri pionieri del Prog italiano (Formula Tre, New Trolls, Nuova Idea, Rocchi o i Trip), ma certe soluzioni armoniche lasciano davvero sorpresi, anche considerata la minima conflittualità del gruppo e la sua ristretta distribuzione geografica.
Nel brano di apertura "About Time" per esempio, sembra quasi che i Beatles vengano stravolti da una Pfm che non è ancora nata.
Le influenze straniere sono più che evidenti, ma è veramente encomiabile, specie nel finale del brano, la disinvoltura con la quale vengono rimescolate in chiave mediterranea.
Inoltre, se buona parte del disco richiama atmosfere da tardi anni '60 (CSN&Y), l'esposizione resta sempre su un livello straordinariamente limpido e personale.
Quasi avveniristico suona il pianismo introduttivo di "Dark morning skies" che richiama non poco gli Steely Dan, sobrio e asciuttissimo il Rock di "Daft", ai limiti del jazz-prog "Confusion", eleganti e precise "Someway" e "Diamond Seller".
In sostanza, si capisce che "About time" sia un disco senza grandi pretese, ma non per questo disattento alla qualità: fluido e sobrio nella sua realizzazione, non ridonda mai in effettistica, non eccede in tecnicismi e infine risulta piacevolmente sanguigno nella sua esecuzione, solo così come la scuola emiliana sa veramente fare.
L'album - ripeto - ebbe poca diffusione e men che meno impatto commerciale, ma chi lo apprezzò all'epoca, sapeva già che qualcuno di "quei cinque" avrebbe fatto strada.
La storia ci confermerà che non aveva torto.
Posted by
J.J. JOHN
5
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